Telethon: lettera alla Ministra della Salute, On. Beatrice Lorenzin

On. Lorenzin, Molti operatori della sanità, dai ricercatori ai volontari, si chiedono come sia accettabile che un’azienda a larga partecipazione statale quale è la RAI possa avallare la convinzione che senza Telethon non ci sia ricerca per le malattie rare. Ci si meraviglia che fino ad ora Lei non abbia preso le difese dei ricercatori che si suppone non si occupino solo di ricerche che tornano utili alle ditte farmaceutiche, ma si dedichino, usando fondi pubblici, anche a ricerche degne di rilievo scientifico, pur se utili solo a pochi individui. La RAI dovrebbe fornire agli italiani informazioni più equilibrate.

Non è possibile che si calendarizzi solo il fascino della bontà, sotto forma di donazione, e non ci s’impegni maggiormente nell’attivare l’attenzione verso l’educazione al bene comune, verso l’impegno che il Suo Ministero deve porre nei confronti di tutti i malati affetti da qualunque tipo di malattia. Il nostro disagio è certamente anche il Suo. Tutti devono avere il diritto di donare ciò che ritengono opportuno a chicchessia; altro è sostituirsi al compito precipuo dello Stato. Le chiediamo pertanto che con la Sua autorevole voce rivaluti il ruolo della ricerca con fondi pubblici, che opera in modo scevro da interessi privati perché ciascun malato abbia pari dignità e pari diritto a trattamenti che agevolino la vita. Grazie per l’attenzione. 17 Gennaio 2016 I NoGrazie

Public Health Literacy

Michele Grandolfo, un NoGrazie, ha recentemente pubblicato su Evidence un articolo sulla Public Health Literacy (PHL). L’articolo, che può essere scaricato gratuitamente da questo indirizzo web http://www.evidence.it/articoli/pdf/e1000121.pdf, parla della PHL, intesa come “il livello di competenza delle persone e delle comunità nell’ottenere, gestire, comprendere, valutare le informazioni e trarne conseguenze per l’azione necessaria ad assicurare beneficio alla comunità con decisioni di sanità pubblica”.

La PHL “richiede al sistema sanitario di saper ridurre gli effetti sulla salute delle disuguaglianze sociali, tanto che indicatori di salute differenti per strato sociale indicano un malfunzionamento del sistema (anche per i più abbienti, non solo per i meno abbienti). Perché la salute, in quanto bene comune, è indivisibile: la salute degli uni dipende da quella di tutti gli altri”. L’articolo propone, per aumentare la PHL, un cambiamento di paradigma in salute: dal paternalismo direttivo alla partecipazione e all’empowerment. Michele invita i NoGrazie a leggere e a diffondere l’articolo e sarebbe felice di discuterne i contenuti con chi ne ha voglia.

Multa milionaria negli USA: il caso pioglitazone

 

Il pioglitazone è un farmaco antidiabetico commercializzato dal 2000 con il marchio Actos dalle ditte Takeda ed Eli Lilly. Nella fase di sviluppo del farmaco, studi su animali avevano mostrato un’aumentata incidenza di tumori della vescica in ratti esposti al pioglitazone, ma solo nel giugno 2011 la FDA e l’EMA conclusero che vi era un leggero aumento del rischio di cancro alla vescica associato con l’uso di pioglitazone nell’uomo e hanno raccomandato l’applicazione di misure di sicurezza come la restrizione dell’uso del farmaco e il monitoraggio dei pazienti.

Dopo questi avvertimenti, numerosi utenti del pioglitazone hanno dichiarato che il farmaco aveva causato loro lo sviluppo di un cancro della vescica, e le due ditte sono state coinvolte in diverse cause legali negli Stati Uniti.

 

Un articolo pubblicato da poco mostra come le ditte abbiano usato numerose strategie per nascondere i fatti o per lo meno ritardarne la pubblicazione.(1) Consultando la documentazione resa pubblica dopo il processo che ha portato alla condanna delle ditte, i ricercatori mostrano come le ditte:

  • Avessero occultato e distorto parte dei dati sugli studi animali nella documentazione spedita alla FDA.
  • Avessero occultato i risultati di uno studio interno del tipo caso/controllo, annidato in uno studio di coorte imposto alle ditte dalla FDA come strumento di sorveglianza post-marketing. Lo studio caso/controllo risultava in prove molto più solide, rispetto allo studio di coorte, sull’associazione tra uso del farmaco e cancro della vescica.
  • Avessero inviato alla FDA i risultati di uno studio interno sull’eccesso di cancro della vescica in pazienti trattati con pioglitazone rispetto a quelli trattati con altri antidiabetici, dichiarando che non c’era un aumento del rischio, mentre i risultati tenuti nascosti mostravano un aumento del 190%.
  • Avessero ritardato al massimo di condurre una meta-analisi dei dati di tutti i trial condotti dalle ditte stesse, per evitare che questa mostrasse più chiaramente l’aumento del rischio.
  • Avessero usato ghostwriters per diffondere articoli rassicuranti sulla sicurezza del farmaco.

 

Nel settembre del 2014, la Corte Distrettuale del Western District della Louisiana negli USA ha condannato Takeda ed Eli Lilly per condotta arbitraria e spericolata e per mancanza di messa in guardia circa il potenziale rischio di cancro della vescica associato all’uso di pioglitazone, pur se questo era ben conosciuto dalle ditte stesse. La condanna iniziale è stata di più di US$ 9 miliardi. Nell’aprile del 2015, Takeda ha accettato di pagare US$ 2,37 miliardi per risarcire le migliaia di pazienti che avevano intentato le cause legali, oltre a US$ 36,8 milioni di multa. Il che rende questo uno dei più grandi pagamenti effettuati da una ditta farmaceutica nella storia, dopo i US$ 4,85 miliardi pagati dalla Merck nel 2007 per lo scandalo del Vioxx.

 

Traduzione e riassunto di Adriano Cattaneo

 

1. Faillie JL, Hillaire-Buys D. Examples of how the pharmaceutical industries distort the evidence of drug safety: the case of pioglitazone and the bladder cancer issue. Pharmacoepidemiology and drug safety 2015; DOI: 10.1002/pds.3925

Meta-analisi sugli antidepressivi influenzate dalle aziende farmaceutiche

Dopo molte dispute legali e un pronunciamento nel 2012 del Dipartimento della Giustizia degli Stati Uniti d’America, nel mese di settembre 2015 una recensione indipendente pubblicata sul Journal of Clinical Epidemiology ha dimostrato che la paroxetina, farmaco usato nella terapia della depressione, non è sicura per gli adolescenti.(1) Questo risultato contraddice le conclusioni degli studi effettuati nel 2001, finanziati da GlaxoSmithKline – azienda produttrice del farmaco – i quali invece avevano attestato che l’impiego della paroxetina negli adolescenti era da considerarsi sicuro.

 

Lo studio originale, noto come Studio 329, venne condotto da Martin Keller, a quel tempo professore di psichiatria e comportamento umano alla Brown University di Rhode Island, USA, il quale aveva riportato tutti i dati con precisione, ma aveva minimizzato in modo fuorviante il rischio suicidio degli adolescenti ed amplificato gli effetti benefici della paroxetina nelle conclusioni. Lo Studio 329 rappresenta un esempio della forte influenza che l’industria farmaceutica riesce a esercitare sulla ricerca scientifica, compresi quegli studi clinici che la FDA (Food and Drug Administration) richiede di finanziare alle aziende farmaceutiche al fine di validare i loro prodotti.

 

Consapevoli della possibile mancanza di imparzialità dei singoli trials clinici, gli studiosi che analizzano i dati della letteratura scientifica sono più portati a fare affidamento sulle meta-analisi, considerate recensioni approfondite che riassumono le prove ricavate da diversi studi. Il recente articolo, pubblicato sul Journal of Clinical Epidemiology, tuttavia mette in dubbio tale convincimento, poiché si è scoperto che la stragrande maggioranza delle meta-analisi sugli antidepressivi è in qualche modo legata all’industria farmaceutica e ciò ha comportato, in alcuni casi, un occultamento deliberato dei risultati negativi.

 

I ricercatori, coordinati da John Ioannidis, epidemiologo presso la Stanford University, hanno preso in esame 185 meta-analisi ed hanno rilevato che un terzo di esse era stato scritto da dipendenti dell’industria farmaceutica. “Sapevamo che l’industria finanzia studi per promuovere i propri prodotti, ma finanziare meta-analisi è molto diverso” poiché esse “sono state tradizionalmente considerate un baluardo della medicina basata sulle evidenze”, ha dichiarato John Ioannidis. “É’davvero incredibile che ci sia un influsso così massiccio di condizionamenti in questo settore.”

 

Quasi l’80% delle meta-analisi sottoposte a revisione aveva una sorta di legame con l’industria, sia sotto forma di sponsorizzazione, che gli autori definiscono come finanziamento diretto dello studio da parte dell’azienda farmaceutica, sia sotto forma di conflitto di interesse, definito come qualsiasi situazione in cui uno o più autori erano dipendenti dell’azienda o ricercatori indipendenti che ricevono qualsiasi tipo di supporto dall’industria (compresi i rimborsi per relazioni a convegni o gli assegni di ricerca). Un dato particolarmente preoccupante emerso dallo studio è che circa il 7% dei ricercatori aveva conflitti d’interesse non dichiarati.

 

Ioannidis ed i suoi collaboratori hanno preso in considerazione tutte le meta-analisi pubblicate tra gennaio 2007 e marzo 2014, relative a studi randomizzati e controllati su tutti gli antidepressivi approvati, compresi gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina, gli inibitori della ricaptazione di serotonina e norepinefrina, gli antidepressivi atipici, gli inibitori delle monoamino-ossidasi e altri antidepressivi. Nei casi in cui gli autori delle meta-analisi non avessero segnalato conflitti di interessi, come è in genere necessario, i ricercatori sono andati ad esaminare campioni casuali di articoli pubblicati da quel determinato autore nello stesso anno, per valutare l’esistenza di importanti dichiarazioni di conflitti. Due investigatori, non consapevoli dei nomi degli autori né di potenziali conflitti, hanno valutato se la meta-analisi includeva nel “riassunto” o nelle “conclusioni” dichiarazioni negative o avvertimenti sul farmaco.

 

Un terzo degli articoli è stato scritto da dipendenti dell’industria farmaceutica; il 60% degli autori erano ricercatori universitari indipendenti, ma con conflitti di interesse. Per le 53 meta-analisi in cui l’autore non era un dipendente dell’industria e non aveva segnalato alcun conflitto di interessi, il 25% aveva conflitti di interesse non dichiarati, che gli epidemiologi hanno identificato con la loro ricerca e incluso nella loro valutazione.

 

“Le meta-analisi che hanno legami con l’industria sono molto diverse rispetto a quelle che non hanno legami con l’industria” ha sottolineato Ioannidis. Quelle con legami all’industria hanno avuto una diffusione molto più massiccia e minori avvertimenti riguardo ai rischi o agli effetti collaterali. “Al contrario, quando non erano coinvolti dipendenti dell’industria, quasi il 50% delle meta-analisi conteneva avvertimenti” ha precisato Ioannidis. Le meta-analisi effettuate da dipendenti dell’industria farmaceutica avevano 22 volte meno probabilità di riportare dichiarazioni negative su di un farmaco rispetto a quelle condotte da ricercatori non affiliati.

 

Il tasso di distorsione dei risultati è simile a quello di uno studio del 2006 relativo all’influenza dell’industria sulle sperimentazioni cliniche di farmaci psichiatrici, che aveva rilevato che i trials clinici sponsorizzati dall’industria hanno riportato risultati favorevoli nel 78% dei casi, rispetto al 48% di risultati favorevoli nei trials finanziati in maniera indipendente. Ioannidis ritiene che si debba limitare o impedire alle aziende farmaceutiche di finanziare le meta-analisi per salvaguardarne l’obiettività. Il noto epidemiologo si è spinto a dire che si potrebbero anche accettare finanziamenti dell’industria per altri tipi di ricerca, “ma non quando si tratta della valutazione finale ovvero quando si tratta di stabilire se i pazienti debbano assumere quel farmaco o no”.

 

Tutte le principali case farmaceutiche sono state interessate dallo studio: oltre a GlaxoSmithKline produttrice di paroxetina (venduta con il nome commerciale Seroxat in Italia e Paxil in USA), anche Eli Lilly and Co., produttrice del popolare antidepressivo Prozac (fluoxetina) e Pfizer, produttrice di Zoloft (sertralina).

 

Per definizione, una meta-analisi dovrebbe essere “una revisione la più completa possibile”, ha affermato Andrea Cipriani, professore di psichiatria presso l’Università di Oxford. “I medici sono bombardati da una grande quantità di informazioni” e si rivolgono alle meta-analisi “perché non hanno il tempo di fare da soli una valutazione critica completa”. La parola meta-analisi implica di per sé “collegamento a numerose prove”. Cipriani ritiene importante sottolineare la manipolazione delle meta-analisi da parte dell’industria farmaceutica. “É necessario segnalare che queste meta-analisi sono più uno strumento di marketing che una scienza”. Cipriani ha sostenuto la necessità di garantire la trasparenza dei dati ed ha affermato che il problema principale è la mancata divulgazione delle informazioni. Secondo Cipriani, le riviste accademiche, custodi dell’evidenza scientifica, sono quelle che dovrebbero essere responsabili sia di individuare i conflitti di interesse, sia di eliminare quegli studi le cui conclusioni non corrispondono ai dati forniti. Ma le riviste scientifiche spesso hanno i loro conflitti di interesse, ammette Cipriani.

 

Ioannidis e coll. hanno cercato inizialmente di pubblicare il loro ultimo studio su riviste di psichiatria ritenendo che sarebbe stato più pertinente, ma l’accoglienza è stata fredda. “Alcune persone si sono sentite piuttosto irritate dallo studio e molti dei loro editori hanno forti legami con l’industria”, ha dichiarato Ioannidis. Gli antidepressivi sono uno dei più grandi mercati farmaceutici, con un fatturato di 9,4 miliardi di dollari negli Stati Uniti nel 2013. Cipriani e Ioannidis ritengono che il problema interessi anche altri farmaci ad alto valore di mercato, come i farmaci cardiologici e oncologici. “L’intero settore ha bisogno di una sorta di esame di coscienza”, ha concluso Ioannidis.

 

Traduzione e adattamento da: Many Antidepressant Studies Found Tainted by Pharma Company Influence, By Roni Jacobson, October 21, 2015 http://www.scientificamerican.com/article/many-antidepressant-studies-found-tainted-by-pharma-company-influence/, a cura di Ermanno Pisani

 

1. Ebrahim S, Bance S, Athale A et al. Meta-analyses with industry involvement are massively published and report no caveats for antidepressants. J Clin Epidemiol 2015 Sep 21 doi: 10.1016/j.jclinepi.2015.08.021

Pedicini (M5s),Lorenzin ritiri antidepressivi con Paroxetina

(ANSA) – BRUXELLES, 13 NOV – Il ministro Lorenzin ritiri dal mercato i farmaci a base di Paroxetina. Lo chiede il coordinatore del gruppo Efdd- M5s nella Commissione ambiente e sanità del Parlamento europeo, Piernicola Pedicini. “Gli antidepressivi per bambini e adolescenti a base di Paroxetina – osserva l’eurodeputato – sono pericolosi, stimolano tendenze suicide e non sono efficaci. Lo sostiene una ricerca scientifica pubblicata il 16 settembre scorso sulla British Medical Journal, tra le più autorevoli riviste mediche al mondo”. Per chiedere che gli organi competenti italiani ed europei intervengano immediatamente con misure urgenti atte a vietare il commercio del farmaco, Pedicini ha inviato una lettera al ministro della Salute italiano Beatrice Lorenzin e ha presentato un’interrogazione alla Commissione europea, con cui si chiede di “attivare una procedura di deferimento all’Agenzia europea per una nuova valutazione dei prodotti medicinali a base di Paroxetina (Direttiva 2001/83/Ce) e di aprire un’indagine finalizzata ad accertare se la multinazionale farmaceutica GlaxoSmithKline (GSK), che commercializzava l’antidepressivo, non abbia violato le norme antitrust dell’Ue accordando un vantaggio sleale al proprio prodotto”.

http://www.ansa.it/europa/notizie/rubriche/voceeurodeputati/2015/11/13/pedicini-m5slorenzin-ritiri-antidepressivi-con-paroxetina_927c194e-b74f-410a-b531-8e1662949394.html

Alzheimer: maneggiare con cura

Riproduciamo qui sotto, con il permesso dell’autore, un commento di Giuseppe Abate apparso il 15 gennaio 2015 su Aging Blog (https://agingblog.wordpress.com/).

 

L’informazione scientifica sui media ha molti meriti. Essa rende edotti i cittadini sui fattori di rischio per diverse patologie, sui sintomi delle stesse, sulle nuove metodiche che consentono diagnosi precoci ed affidabili, e sulle terapie al momento disponibili. Tutto ciò contribuisce significativamente alla prevenzione ed alla cura, ed ha un positivo impatto sulla salute pubblica. Ciò premesso, è necessario tuttavia sottolineare che esistono storture nella informazione medica, fonte di danni talvolta rilevanti. Infatti, a lato della acculturazione del cittadino, esistono meno nobili finalità, tra cui quella (neanche tanto nascosta) di promuovere interessi economici, delle industrie produttrici, delle istituzioni sanitarie, ed assai spesso anche dei singoli professionisti. Per tal motivo, l’informazione ne risulta enfatizzata e distorta, alimentando false speranze, specie presso le persone più semplici e meno dotate di senso critico.

 

L’occasione per queste considerazioni deriva da un articolo, comparso l’8 dicembre 2015 sul supplemento Salute di Repubblica, il cui titolo così recita “La corsa all’oro – Il farmaco contro l’Alzheimer”. Nell’occhiello si legge “DEMENZA. Una medicina che funziona. Dopo anni di ricerche. Ma bisogna somministrarla precocemente. Così nasce un superbusiness. Diagnosi e cura prima che la patologia si manifesti. Per milioni di persone”. Ci sono molti equivoci in queste titolazioni. Da un lato viene subito sparata la notizia che c’è un farmaco “che funziona”; dall’altro si fa capire che vi è la prospettiva di un colossale business da parte dell’industria del farmaco; ed infine c’è una sollecitazione ad effettuare una diagnosi precoce. Tra queste tre cose ce n’è una falsa. La prima.

 

Procediamo per gradi. In primo luogo, di che si tratta? L’azienda farmaceutica Biogen ha presentato ad un Congresso Internazionale i risultati preliminari di una sperimentazione, che dimostra che un anticorpo monoclonale (aducanumab) risulta efficace nel diminuire la quantità di beta-amiloide presente nel cervello dei malati di Alzheimer e nel migliorare contestualmente le capacità cognitive dei pazienti, misurate con specifiche scale. Tutto ciò sarebbe dimostrato da uno studio preliminare su 166 casi (pochini), per cui la Ditta, visti i promettenti risultati, vuole estendere la ricerca ad un campione più vasto di ammalati.

 

A questo punto cercherò di spiegarmi meglio a beneficio di chi non è medico, ma che, giunto fin qui, evidentemente conosce l’Alzheimer, e ne ha magari una fottuta paura. A che cosa è dovuta questa terribile malattia? Di preciso non si sa, ma è certo che essa si associa alla eccessiva produzione di alcune proteine anomale, la beta-amiloide e la proteina “tau”. Tali proteine si depositano nelle cellule nervose e ne determinano la morte. Il processo si verifica molto lentamente, per cui la patologia cerebrale può precedere di molti anni (anche venti) la comparsa dei sintomi, tra i quali il più precoce è una grave perdita di memoria. I moderni mezzi neuro-radiologici (Risonanza Magnetica Nucleare, Tomografia ad emissione di positroni e SPECT- Single-Photon Emission Computerized Tomography), così come il dosaggio delle proteine anomale nel liquido cefalo-rachidiano, consentono di individuare in fase precoce il danno cerebrale.

 

Basandosi sulla convinzione che la responsabilità sia della beta-amiloide, da tempo vengono eseguite delle ricerche per individuare farmaci capaci di impedirne la formazione e/o deposizione, oppure di facilitarne la rimozione. Ne sono stati provati diversi, ma per un verso o per l’altro (scarsa efficacia, tossicità, ecc.) sono stati scartati. Adesso questo aducanumab sembrerebbe (dico sembrerebbe) meglio degli altri.

 

Tutto ciò premesso, a noi vecchi del mestiere questi progressi della scienza non entusiasmano più di tanto. Sono più di 40 (forse 50) anni che veniamo bombardati dalle aziende farmaceutiche che, a fronte del dilagare della demenza senile (fenomeno strettamente connesso all’invecchiamento della popolazione), hanno immesso sul mercato una valanga di farmaci fantastici, rivelatisi in breve tempo delle bufale colossali. Si cominciò con una vagonata di molecole che agivano (si disse) sui neurotrasmettitori, cioè su quelle sostanze che fanno comunicare i neuroni gli uni con gli altri. Poiché alcuni di essi sono carenti nella malattia di Alzheimer – si disse – un loro aumento poteva risolvere la situazione. Si portava ad esempio la dopamina che è carente nel morbo di Parkinson, ed il cui aumento consente sorprendenti miglioramenti. Verissimo, ma non per l’Alzheimer. É pur vero che i topi diventavano più intelligenti ed imparavano più in fretta la via del labirinto che li avrebbe portati alla ciotola del cibo, o scoprivano prima il sistema per non prendere la scossa. Per gli umani le cose erano un po’ diverse. In apparenza, essi presentavano un miglioramento nei punteggi di una serie di scale e scalette per misurare memoria, intelligenza, capacità logiche e quant’altro, somministrate dai ricercatori con molta benevolenza. All’atto pratico, in qualche caso i pazienti riuscivano più facilmente a ricordare il nome del gatto, salvo poi, un minuto dopo, a riporre le pantofole dentro il frigorifero. Noi geriatri contribuimmo a somministrare e propagandare queste molecole, un po’ perché a questi disgraziati ed ai loro familiari che invocavano aiuto una pillola della speranza non si poteva negare, un po’ perché sollecitati da qualche congresso vacanza con relativo trattamento principesco.

 

Poi venne il vaccino anti-beta-amiloide. Venivano prodotti in laboratorio anticorpi contro questa sostanza, che la neutralizzavano e ne favorivano la eliminazione. Eureka!! Visti i risultati nei topi, sembrò di essere ad un passo dalla vittoria. Peccato che nell’uomo quel passo non si è ancora fatto, a causa della comparsa di sgradevoli effetti collaterali. La ricerca è andata comunque avanti ed oggi eccoci a trastullarci con gli anticorpi monoclonali. Come dicevo, ne sono stati sperimentati diversi, ma questo aducanumab della Biogen sembra più promettente di altri. Vedremo. Certo i fallimenti del passato non alimentano rosee speranze. Ma comunque “mai dire mai”. Certo che nella più ottimistica delle ipotesi di anni ne dovranno passare molti, ed è ugualmente certo che gli anziani di oggi non potranno avvantaggiarsene.

 

Ammesso (e non concesso) che così possa essere, viene tuttavia da chiedersi che gusto ci si provi a sottoporsi ad una serie di indagini di un certo rilievo per scoprire che tra 10 o 20 anni si verrà colpiti dall’Alzheimer, senza avere alcuna certezza che un farmaco in via di sperimentazione potrà non guarirti ma solo ritardare di qualche mesetto l’arrivo del terribile morbo. Una prospettiva, a mio avviso, folle. Senza metter nel conto che quella della beta-amiloide è solo una bella teoria, ma che le cause della demenza sono ben più complesse, coinvolgendo altri meccanismi, quali l’altra proteina denominata “tau” (anche in questo caso vaccini in arrivo), il danno vascolare (molto probabile), e non ultimo lo stesso ineluttabile fenomeno dell’invecchiamento. Ricordo a tal proposito che diventar centenario (somma aspirazione di molti) comporta statisticamente una probabilità del 50% di beccarsi la demenza. Non poco. A mio sommesso parere, del resto, la demenza è una patologia diversa da tutte le altre, assumendo un significato escatologico, ponendo cioè la domanda filosofica su quale sia il destino ultimo della vita umana: di finire, certamente, ma anche di finire con il progressivo esaurirsi della fiamma dell’intelligenza, che è quanto più ci distingue da tutti gli esseri viventi. Ed allora, tornando ai media, ed all’articolo che ha dato spunto a questo discorso, ci vorrebbe molta più cautela nel dar le notizie, ingannando i cittadini che ovviamente, leggendo, sperano che sia a portata di mano la terapia miracolosa. Quindi, cari giornalisti, andiamoci piano.

 

Nel rapporto sulla demenza, pubblicato nel 2012 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, era scritto chiaramente, senza giri di parole: “No treatments are currently available to cure or even alter the progressive course of dementia…”. (Nessun trattamento è al momento disponibile per curare o anche alterare il decorso progressivo della demenza). Eppure è stata mantenuta la rimborsabilità degli inibitori dell’acetilcolinesterasi e della memantina. Si fa l’interesse dei pazienti o delle aziende produttrici?

Ciao a tutti,

Ermanno Pisani

(http://www.globalaging.org/agingwatch/Articles/Dementia%20a%20public%20health%20priority.pdf)

AMA contro la pubblicità diretta dei farmaci

L’Associazione dei medici americani (AMA) chiede che si sospenda la pubblicità diretta ai consumatori per i farmaci e per i dispositivi medici che richiedono la prescrizione. La richiesta nasce dalla constatazione che la mole crescente di messaggi pubblicitari spinge i pazienti a esigere terapie sempre più costose, pur in presenza di alternative clinicamente efficaci e più economiche.

Non è un caso che negli unici due paesi al mondo dove è permessa la pubblicità diretta dei farmaci (USA e Nuova Zelanda) siano stati spesi in pubblicità diretta 4,5 miliardi di dollari negli ultimi due anni, con un incremento del 30% rispetto agli anni precedenti. L’ulteriore preoccupazione dell’AMA è che i pazienti vengano spinti a richiedere cure non appropriate, anche se a volte non se le possono permettere per il loro alto costo, perché convinti dalla pubblicità che i nuovi farmaci facciano al caso loro. Va notato che nel solo 2015 vi è stato un aumento del 4,7% del costo dei farmaci, sia griffati che generici.

 

Ovviamente PhRMA, l’equivalente statunitense di Federfarma, non condivide la proposta di AMA, sostenendo che “lo scopo della pubblicità diretta è quello di fornire informazioni scientifiche accurate perché i pazienti possano conoscere meglio le opzioni terapeutiche esistenti”. La FDA, che approvò molti anni fa la pubblicità diretta ai consumatori, può revocare il mandato in qualsiasi momento.

 

Tra i commenti comparsi nei siti dove è stata pubblicata la proposta dell’AMA, si legge: “AMA, dove eravate quando fu concessa la pubblicità diretta? Il primo farmaco pubblicizzato fu il Seldane, un antistaminico che non provocava sonnolenza, ma poteva causare danni valvolari cardiaci anche mortali”; e ancora “quando uscì il Tagamet e venne pubblicizzato in TV, un anziano specialista si rifiutò di prescriverlo, continuando a consigliare il vecchio bismuto che viene ancora oggi utilizzato, mentre il Tagamet è sparito dalla scena”.

 

Per fortuna nella maggior parte dei paesi, Europa compresa, la pubblicità diretta non è stata autorizzata, nonostante le ripetute richieste dell’industria farmaceutica. Speriamo che l’auspicata revoca della pubblicità negli USA non venga paradossalmente seguita dal suo permesso in Europa, in base a logiche liberiste e commerciali che contrastano con il compito primario di tutelare la salute dei cittadini a costi sostenibili.

 

Notizia tradotta e riassunta da Fabio Suzzi

Da commensali a consulenti: la diseducazione continua…

 

 

Uno dei cambiamenti più rilevanti – ma anche più silenziosi – degli ultimi anni nella sanità non soltanto italiana riguarda le attività del marketing farmaceutico. L’uso sempre più attento dei dati raccolti nel monitoraggio del cosiddetto “ritorno degli investimenti” ha dimostrato ai manager industriali che i soldi spesi per la promozione più tradizionale servono a poco. In poche parole, acquistare pagine pubblicitarie sulle riviste scientifiche o regalare libri utili non cambiano le prescrizioni dei medici: probabilmente perché la lettura non è più un’abitudine dei professionisti (non solo dei medici) o lo è in misura inferiore di un tempo.

 

Negli ultimi quindici anni, poi, una straordinaria opportunità è stata offerta alle aziende: l’educazione continua del medico (ECM). Una cosa estremamente redditizia per le industrie, soprattutto quella residenziale. È un sistema, quello della ECM, molto ben pensato a vantaggio di tutti i protagonisti. Il medico ottiene crediti il più delle volte con il minimo impegno e assolve il proprio debito formativo. Le istituzioni non solo sono sollevate dal proprio onere educativo ma ricevono importanti finanziamenti dalle aziende che, come in Italia nei riguardi di AGENAS, sono obbligate a versare una quota per ogni credito maturato nei corsi da loro sponsorizzati. Le industrie, infine, hanno l’opportunità di mantenere il contatto diretto con i clinici prescrittori, facendo apparire dei messaggi commerciali come contenuti utili all’aggiornamento.(1)

 

Queste dinamiche sono note da molti anni ma sono state oggetto di un’analisi recente che ha confermato come il problema sia purtroppo molto attuale, nonostante un teorico consenso sui rischi che esse comportano.(2) La ECM, negli Stati Uniti, è oggi il modo più utilizzato per aggirare le nuove norme per la trasparenza dei finanziamenti ai medici da parte delle aziende. Quest’ultime, infatti, si servono di agenzie incaricate sia di remunerare i relatori (e talvolta anche i partecipanti), sia di organizzare gli eventi, sia di garantire che i contenuti dei progetti “formativi” rispondano alle necessità del marketing dello sponsor. In questo modo il denaro ricevuto dai medici non deve essere dichiarato pubblicamente come previsto dal Sunshine Act statunitense.(3) “Un tempo le aziende lo chiamavano «invitarci a pranzo» e oggi è diventato «farci fare da consulenti»”.(4)

 

The Milwaukee Journal Sentinel ha pubblicato una analisi (dai risultati purtroppo scontati) sulle attività educazionali centrate sulla “terapia” a base di testosterone: dei 75 corsi valutati, 65 prevedevano la docenza di relatori gravati da conflitti di interesse. È un mercato, quello del testosterone, in costante crescita a conferma dell’efficacia – più che del prodotto – della strategia pubblicitaria. Nel 2000, le prescrizioni di testosterone erano sostanzialmente limitate a non molto frequenti casi di ipogonadismo: meno di un milione di ricette l’anno. Nel 2014 sono salite a 6,5 milioni. Con una parallela crescita di rischio da farmaco: dal 2010 sono state segnalate 3.900 reazioni avverse negli Stati Uniti, che hanno portato a 2.000 ricoveri e a 150 decessi. Senza considerare, perché più difficilmente quantificabile, l’aumento del rischio di cancro della prostata legato all’assunzione di testosterone.

 

Le evidenze a sfavore di questi prodotti sono schiaccianti, al punto che Steve Nissen – clinico della Cleveland Clinic e tra i più apprezzati trialisti americani – è giunto a dichiarare che qualsiasi nuovo studio sul testosterone relegherebbe i cittadini statunitensi al rango di porcellini d’India: cavie, per l’interesse delle industrie farmaceutiche.

 

“Come può un medico far credere che le aziende farmaceutiche possano essere interessate alla formazione?”, si chiedeva Marcia Angell nel libro prima citato. Eh sì, perché il problema di fondo è nell’accettazione di una realtà imbarazzante da parte delle categorie professionali coinvolte in queste dinamiche. L’industria, sosteneva l’ex direttore del New England Journal of Medicine, fa il proprio mestiere ed è, in certa misura, giustificabile. Difficile pensare lo stesso per medici o farmacisti, ma anche per le istituzioni: il beneficio economico di un sistema così congegnato è probabilmente molto inferiore ai costi generati dall’aumento delle prescrizioni diagnostiche e terapeutiche.

 

  1. Angell M. The truth about the drug companies. New York: Random house, 2004. Vedi il capitolo Marketing masquerading as education (pp.135-55).
  2. Fauber J, Jones C, Fiore K. Testosterone courses downplay risks, lead to overuse in older men. The Milwaukee Journal Sentinel; 17 ottobre 2015. Ultimo accesso: 6 novembre 2015.
  3. Physician Payments Sunshine Act. Wikipedia.
  4. Kowalczyk L. Drug firms and doctors: The offers pour in. Boston Globe, 15 dicembre 2002.

A cura de Il Pensiero Scientifico Editore

Finanziamenti USA della Coca Cola

Ricordate la serie di articoli del BMJ che denunciavano i legami tra Big Sugar e istituzioni accademiche inglesi, con i relativi conflitti d’interesse tra ricercatori e industria? Ne abbiamo scritto nella Lettera n. 33 del mese di maggio 2015. Tra quei Big Sugar non poteva mancare la Coca Cola. E poteva questa non agire allo stesso modo anche in patria, cioè negli USA? Ovviamente no.

Un’inchiesta del New York Times rivela che la ditta ha investito oltre 120 milioni di dollari negli ultimi 5 anni per finanziare centri di ricerca e singoli ricercatori e medici, ma anche una fondazione per il National Institute of Health, perché con le loro ricerche e pubblicazioni spostassero le accuse verso le cause dell’obesità dalle bevande zuccherate alla mancanza di attività fisica.(1) Il messaggio per il pubblico doveva essere: se volete mantenere il peso forma, fate molta attività fisica, e non preoccupatevi molto di ciò che bevete. Allo scopo, la ditta ha finanziato anche la creazione di un’associazione no profit, chiamata Global Energy Balance Network. Questo tentativo di deviare l’attenzione dall’assunzione di bevande zuccherate aveva anche due secondi fini: a) sgonfiare le proposte, negli USA e in molti altri paesi, di una sovrattassa per diminuirne il consumo, e b) tentare di far risalire le vendite, diminuite del 25% negli ultimi anni negli USA.

 

Barry Popkin, professore di nutrizione globale presso l’Università del North Carolina a Chapel Hill, ha commentato l’inchiesta del New York Times dicendo che il sostegno di Coca-Cola a importanti ricercatori gli ricordava le tattiche usate dall’industria del tabacco, che arruolava esperti perchè diventassero “mercanti di dubbio” per i rischi del fumo per la salute. Marion Nestle, autrice del libro “Le politiche delle bevande gassate” e professore di nutrizione, studi alimentari e salute pubblica alla New York University, è stata particolarmente brusca: “Il Global Energy Balance Network non è altro che un gruppo di facciata per la Coca-Cola, il cui programma è molto chiaro: fare in modo che questi ricercatori confondano la scienza e distolgano l’attenzione dall’alimentazione”. Kelly Brownell, decano della facoltà di Public Policy presso la Duke University, ha detto che Coca-Cola “come suo business, si focalizzata sul premere perché entrino un sacco di calorie, ma come filantropo si focalizza sulle calorie che escono fuori con l’esercizio”.

 

L’inchiesta era molto ben documentata, le prove inoppugnabili. Tant’è vero che il CEO della ditta, Muhtar Kent, non ha potuto far altro che ammettere che era vero e promettere trasparenza. Pochi giorni dopo Coca Cola ha pubblicato la lista di tutte le persone e istituzioni che avevano ricevuto soldi per partecipare al programma di “ricerca”: si tratta di centinaia di piccoli e grandi finanziamenti. L’American Academy of Pediatrics, per esempio, aveva ricevuto 3 milioni di dollari. Alcuni dei beneficiari hanno semplicemente ammesso (che altro potevano fare?); altri hanno tentato di giustificarsi; pochi hanno deciso di restituire i soldi (l’Università del Colorado ha restituito un milione, per esempio). Il capo del dipartimento di ricerca della Coca Cola, che aveva orchstrato il programma, si è dimesso, o è stato costretto a dimettersi. Il Global Energy Balance Network è stato smantellato. Tutto è bene quello che finisce bene? In parte sì. Ma quanti danni sono stati fatti in quei 5 anni e quanto tempo (e denaro) ci vorrà per rimediarvi? E siamo sicuri che gli strateghi delle pubbliche relazioni della Coca Cola non se ne inventino di nuove, e magari di più sofisticate, per raggiungere gli stessi obiettivi? E, la butto lì, cosa succede negli altri paesi, l’Italia per esempio, dove non c’è un New York Times?

 

Adriano Cattaneo

 

1. O’Connor A. Coca-Cola Funds Scientists Who Shift Blame for Obesity Away From Bad Diets. New York Times, 9 August 2015 http://well.blogs.nytimes.com/2015/08/09/coca-cola-funds-scientists-who-shift-blame-for-obesity-away-from-bad-diets/?_r=0

La statistica ingannevole delle statine

Le statine sono una classe di farmaci ampiamente usata efficaci nel ridurre i livelli plasmatici di colesterolo. Ma quanto sono efficaci e sicure nel ridurre il rischio cardiovascolare? Sicuramente meno di quanto si creda. Un articolo recentemente pubblicato ci mostra come la ricerca sulle statine è caratterizzata da una strategia di presentazione dei dati in cui le statistiche di rischio relativo e rischio assoluto sono state volutamente utilizzate da un lato per amplificare l’apparenza del beneficio, dall’altro per minimizzare i seri eventi avversi.(1) Analizzando i dati degli studi in modo trasparente è chiaro come per un beneficio molto limitato, si vada incontro a frequenti effetti collaterali. Vista la diffusione di questa categoria di farmaci, il risultato sarà che milioni di persone sane diventeranno pazienti e sperimenteranno effetti avversi senza beneficio.

 

Premessa

 

Le statine sono farmaci che riducono i livelli di colesterolo tramite l’inibizione dell’enzima HMG-CoA reduttasi. Oggi milioni di persone assumono statine, e il numero degli utilizzatori di questi farmaci è destinato a crescere con l’introduzione di nuove linee guida che ne espandono ulteriormente l’uso.

 

Ma il colesterolo è un fattore causale delle malattie cardiovascolari? La risposta a questa domanda sembra scontata, ma non è così, tanto che per decenni vi è stata un’accesa disputa tra i sostenitori del nesso causale tra il colesterolo e la malattia coronarica e gli scettici che considerano il colesterolo come un componente vitale del metabolismo cellulare. Gli argomenti dei primi si basano sulla presenza di colesterolo nel tessuto aterosclerotico e su studi che dimostrano un’associazione tra elevati livelli di colesterolo e malattia coronarica. Gli scettici, al contrario, enfatizzano come manchi un legame di causa-effetto tra elevati livelli di colesterolo e malattia coronarica. In effetti, una ricerca estesa ha documentato che la malattia coronarica può presentarsi indipendentemente dai livelli di colesterolo, e che anziani con bassi livelli di colesterolo risultano avere un’aterosclerosi sovrapponibile a quelli con livelli di colesterolo elevati.

 

Tornando alla domanda iniziale: il colesterolo è un fattore causale delle malattie cardiovascolari? Di sicuro i sostenitori del nesso di causalità hanno avuto la meglio, promuovendo la visione che “non c’è nessun dubbio circa il beneficio e la sicurezza del ridurre i livelli di colesterolo”, e definendo le statine come “farmaci miracolosi” e “l’invenzione più potente per prevenire eventi cardiovascolari”. Anche gli scettici riconoscono che il trattamento con le statine sembra ridurre gli eventi coronarici, ma un’ispezione attenta mostra come il beneficio sia molto più limitato rispetto a quanto è stato raccontato ai medici e al pubblico, e che l’effetto potrebbe derivare da altri meccanismi piuttosto che dalla riduzione dei livelli plasmatici di colesterolo.

 

Come la statistica ha fatto apparire le statine sicure ed efficaci

 

Negli esempi successivi si mostrerà come l’apparenza dell’efficacia dipenda dal fatto che i risultati sono stati descritti sfruttando il “rischio relativo” e disegnando e interpretando gli studi in modo da minimizzare gli effetti collaterali. Ma prima di analizzare i dati degli studi, è necessario comprendere la terminologia usata nella ricerca che riguarda tre termini statistici: riduzione del rischio relativo (Relative Risk Reduction), riduzione del rischio assoluto (Absolute Risk Reduction) e numero di persone da trattare (Number Needed To Treat). Per chiarire questi termini, consideriamo uno studio durato 5 anni e che ha coinvolto 2000 individui sani di mezza età. L’obbiettivo di questo studio era verificare se le statine possono prevenire una malattia coronarica. A metà dei partecipanti è stato somministrato un placebo (sostanza priva di principi attivi) e all’altra metà una statina. Durante i 5 anni di studio circa il 2% degli individui che assumono il placebo hanno un infarto miocardico non fatale contro l’1% degli individui che assumono la statina. La statina è stata quindi di beneficio all’1% degli individui e 1% è la riduzione del rischio assoluto. Messa in un altro modo, la probabilità di non avere un infarto miocardico non fatale è del 98%, mentre assumendo una statina questa probabilità si riduce ulteriormente dell’1% e arriva al 99%. Il numero di persone da trattare per ottenere un beneficio, uguale a “100/riduzione del rischio assoluto” in questo caso è 100, cioè è necessario trattare 100 persone per 5 anni perché 1 ne abbia un beneficio.

 

Quando si tratta di presentare i risultati della ricerca ai medici o al pubblico, i responsabili della ricerca sanno che le persone non saranno impressionate dall’aumento di un 1% e invece di usare la riduzione del rischio assoluto, presentano il beneficio in termini di riduzione del rischio relativo (RRR). La riduzione del rischio relativo deriva dalla riduzione del rischio assoluto ed esprime la differenza nella presenza di malattia tra i due gruppi con una frazione. Quindi, usando la riduzione del rischio relativo, i responsabili della ricerca possono dire che la statina, anziché ridurre l’incidenza di infarto miocardico non fatale da 2% a 1%, riduce l’incidenza di infarto miocardico del 50%, dato che 1 è il 50% di 2.

 

Un esempio di come l’effetto delle statine è stato ingigantito

 

Per illustrare come nei media e nella letteratura medica un effetto trascurabile del trattamento con le statine sia stato ingigantito usando la riduzione del rischio relativo, qui di seguito viene proposta un’analisi dello studio JUPITER che ha promosso l’uso della rosuvastatina. Leggendo l’articolo originale che trovate in bibliografia, trovate esempi simili tratti da altri studi che hanno promosso l’uso dell’atorvastatina (Anglo-Scandinavian Cardiac Outcomes Trial-Lipid Lowering Arm – ASCOTLLA) e della simvastatina (The British Heart Protection Study).

 

JUPITER: in questa ricerca la rosuvastatina o un placebo sono stati somministrati a 17.802 persone sane con un’elevata PCR, ma senza storia di malattia cardiovascolare o elevati livelli di colesterolo. L’obbiettivo della ricerca era verificare nei due gruppi l’incidenza di eventi cardiovascolari maggiori, definiti come infarto miocardico non fatale, ictus non fatale, ospedalizzazione per angina instabile, necessità di rivascolarizzazione arteriosa, o morte secondaria ad eventi cardiovascolari. Lo studio è stato interrotto dopo un follow-up medio di 1,9 anni. Il numero di soggetti che hanno avuto eventi cardiovascolari maggiori è 251 (2.8%) nel gruppo di controllo che assumeva il placebo e 142 (1.6%) nel gruppo che assumeva la rosuvastatina. La riduzione del rischio assoluto è del 1.2% e il numero di persone da trattare (100/1.2%) è quindi 83. Nella ricerca, il beneficio per quanto riguarda il numero di infarti miocardici fatali o non fatali è anche meno: ci sono stati 68 (0.67%) eventi nel gruppo del placebo contro 13 (0.35%) nel gruppo della statina, corrispondenti a una riduzione del rischio assoluto di 0.41% e un NNT di 244, che equivale a dire che 244 persone devono essere trattate per 1,9 anni per prevenire un singolo infarto miocardico fatale o non fatale. Questo significa che per quanto riguarda gli infarti miocardici fatali e non fatali, meno dell’1% della popolazione trattata (lo 0,41%) ha beneficiato del trattamento con la rosuvastatina. Nonostante questo effetto striminzito, sui media il beneficio del farmaco è stato riportato con frasi del tipo “oltre il 50% evita un infarto miocardico”, dato che 0.41 è il 54% di 0.76. Quindi i medici e il pubblico sono stati informati di una riduzione del 54% degli infarti quando in realtà la riduzione effettiva nella popolazione trattata è di meno di 1 punto percentuale. Inoltre, la riduzione del rischio assoluto di 0.41% deriva dall’insieme di infarti miocardici fatali e non fatali. É stata prestata poca attenzione al fatto che sono morte più persone di un infarto nel gruppo che assumeva il farmaco e anche ricercatori esperti possono non aver considerato questo dato poiché non veniva esplicitato nella pubblicazione. I numeri sono nascosti in una tabella dell’articolo pubblicato: sottraendo il numero di infarti non fatali dal numero di tutti gli infarti risulta infatti che nel gruppo che assumeva la statina si sono verificati 11 infarti fatali, mentre nel gruppo di controllo solo 6.

 

Nonostante il minuscolo effetto della rosuvastatina, nei media i risultati di JUPITER sono stati gonfiati. Su Forbes Magazine, John Kastelein, uno dei coautori dello studio ha proclamato: “É spettacolare, finalmente abbiamo dei dati robusti che una statina previene un primo infarto miocardico”. Questa e altre dichiarazioni trionfanti hanno convinto l’agenzia regolatoria del farmaco americana (FDA) a raccomandare il trattamento con rosuvastatina anche a persone con normali livelli di colesterolo ed elevata PCR. Nella pubblicazione dei risultati di JUPITER, non sembra esserci differenza negli effetti avversi dei due gruppi. Comunque, nel gruppo trattato con il farmaco c’erano 260 nuovi casi di diabete contro i 216 del gruppo di controllo (3% vs 2.4%; p<0.01). Al contrario degli effetti benefici del farmaco amplificati usando il rischio relativo, l’effetto significativo dell’aumento dei nuovi casi di diabete nei pazienti che assumevano la rosuvastatina è stato espresso solo in forma di aumento del rischio assoluto. Una valutazione oggettiva di JUPITER avrebbe dovuto essere comunicata in questo modo: “La probabilità di evitare un infarto miocardico non fatale nei prossimi 2 anni è di circa il 97% senza trattamento, ma si può aumentare a circa il 98% assumendo rosuvastatina ogni giorno. Comunque, la vita non sarà prolungata ed è aumentato il rischio di diabete, senza menzionare altri effetti avversi” (che descriveremo in parte nella sezione successiva).

 

Esempi di come gli effetti collaterali delle statine sono stati minimizzati

 

Un secondo problema degli studi che riguardano le statine sono le distorsioni sistematiche per minimizzare gli effetti avversi. Come abbiamo potuto apprezzare, l’effetto benefico delle statine riguarda una riduzione dell’1-2% di eventi coronarici. Questo dato, a livello di popolazione, renderebbe le statine degli ottimi farmaci, se questi non avessero eventi avversi. Ma gli effetti collaterali sono sostanziali e includono un’aumentata incidenza di cancro, cataratta, diabete, alterazioni cognitive e malattie muscolo-scheletriche. Mentre il beneficio delle statine è sempre riportato con la forma del rischio relativo, gli effetti collaterali sono sempre espressi con il rischio assoluto. Nel seguente esempio analizzeremo uno dei seri eventi correlati all’assunzione delle statine che sono stati minimizzati: il cancro. Consiglio ancora la lettura dell’articolo originale che trovate in bibliografia, in cui potrete apprezzare come è stata sistematicamente sminuita l’importanza di altri due effetti collaterali: la miopatia e soprattutto le alterazioni cognitive.

 

Cancro: vari studi sulle statine hanno riportato un aumento dell’incidenza di cancro. In 4 di questi studi l’incremento di incidenza era statisticamente significativo. Nello studio CARE, che includeva 4159 pazienti (576 donne e 3583 uomini) con infarto e livelli di colesterolo elevati, a metà dei pazienti è stata somministrata prasuvastatina e all’altra metà un placebo. Dopo 5 anni di trattamento, 24 pazienti sono morti per patologia cardiovascolare nel gruppo che assumeva il farmaco (1.15%) contro 38 (1.83%) tra i controlli che assumevano un placebo. La riduzione del rischio assoluto è dello 0.68%. L’effetto collaterale più serio è stato il tumore alla mammella, riscontrato in 12 donne (4.2%) nel gruppo che assumeva la prasuvastatina e in 1 donna (0.34%) nel gruppo che assumeva il placebo. Anche se la differenza di incidenza tra i due gruppi è statisticamente rilevante (p = 0.0002), gli autori hanno minimizzato l’aumento del rischio scrivendo nell’articolo: “Non c’è nessuna conosciuta potenziale base biologica… la totalità dell’evidenza suggerisce che questo riscontro nello studio CARE potrebbe essere un anomalia meglio interpretata nel contesto della bassa frequenza di eventi avversi dello studio e nel valutazione statistica di vari eventi avversi”. Ma una base biologica che correla le statine all’aumento del rischio di cancro esiste, dato che un’estesa ricerca indica che le lipoproteine partecipano attivamente al funzionamento del sistema immunitario e una riduzione dei livelli di colesterolo è associata a un’aumentata incidenza di cancro. Inoltre, studi di pazienti ammalati di cancro e controlli sani hanno mostrato che i pazienti ammalati di cancro usavano statine in modo significativamente maggiore rispetto ai soggetti di controllo.

 

Un altro studio in cui è stato riscontrato un aumento dell’incidenza di cancro è PROSPER. Si tratta di una ricerca che ha coinvolto 5084 tra uomini e donne con una storia di vasculopatia o un fattore di rischio per vasculopatie. A metà dei soggetti è stata somministrata prasuvastatina, all’altra metà un placebo. Dopo un follow-up di 3,2 anni, nell’abstract dell’articolo si leggeva che la mortalità da malattia cardiaca veniva ridotta del 24% dalle statine, ma analizzando meglio una delle tabelle, il 3,3% dei pazienti era morto nel gruppo delle statine contro il 4,2% nel gruppo di controllo, per una riduzione del rischio assoluto dello 0,9%. Il piccolo beneficio sulla mortalità cardiovascolare veniva però annullato da un sostanziale numero di pazienti che morivano per un cancro: nel gruppo della prasuvastatina c’erano 28 morti in meno per patologia cardiovascolare, ma 24 morti in più per cancro. Se includiamo nel calcolo casi di cancro che non avevano (ancora) portato alla morte i pazienti, il totale era di 245 pazienti nel gruppo che assumeva il farmaco e 199 nel gruppo che assumeva il placebo, una differenza statisticamente significativa (p = 0.02). Inoltre la differenza tra i due gruppi nei casi di tumore aumentava di anno in anno. Nonostante una differenza statisticamente significativa, la conclusione degli autori era che “la più probabile spiegazione nello sbilanciamento nell’incidenza di cancro nello studio PROSPER è la casualità, che potrebbe in parte derivare dal reclutamento di individui con una malattia occulta”. Per minimizzare ulteriormente questo riscontro gli autori hanno contato il numero di nuovi tumori in tutti i precedenti studi con la prasuvastatina e trovato che presi insieme non c’era un aumento significativo. Ma nel loro calcolo gli autori hanno omesso due fattori importanti: non hanno calcolato il numero di individui con tumori della pelle e non hanno detto che negli studi precedenti i partecipanti erano di 20-25 anni più giovani. PROSPER è uno studio particolarmente importante e unico dato che le statine sono usate nelle popolazione anziana. Il cancro è un riscontro frequente negli studi autoptici delle persone anziane la cui morte è attribuita a un’altra causa, questo perché il cancro è spesso latente e cresce così lentamente che spesso non diventa un problema nel corso della vita, a meno che la crescita non sia accelerata da fattori esterni. Se il trattamento con le statine o la riduzione del colesterolo può essere un fattore che causa il cancro, come mostrato in modelli animali, è probabile che il cancro dia prima i suoi segni nella popolazione anziana. Ci sono grandi differenze tra i periodi di incubazione di tipi differenti di cancro e quelli più facili da diagnosticare sono quelli che compaiono prima. Escludere i tumori della pelle introduce una distorsione importante. Nei primi due studi che riguardavano la simvastatina, 4S e Heart Protection Study, a più pazienti tra quelli trattati erano stati diagnosticati tumori della pelle. Questi dati sono inclusi nelle tabelle degli articoli e non compaiono nel testo, forse perché la differenza non era statisticamente significativa, ma se si combinano i dati dei due studi, l’associazione tra cancro e statine diventa significativa (256/12454 vs 208/12459; p < 0.028).

 

Un’altra ricerca sulle statine in cui il cancro compare più spesso nel gruppo dei pazienti che assumono il farmaco è SEAS. In questo studio sono stati inclusi 1873 pazienti con vari gradi di stenosi aortica e con un valore medio di colesterolo di 222 mg%. La metà sono stati trattati con simvastatina e ezetimide, l’altra metà con un placebo. Eccetto che per una riduzione degli eventi ischemici, non è stato identificato nessun beneficio nei 4,3 anni di trattamento. Comunque, il cancro si è verificato in 105 (11.1%) pazienti che assumevano il farmaco ma solo in 70 (7.5%) pazienti nel gruppo di controllo, un effetto statisticamente significativo (p<0.01). Gli autori hanno notato l’aumentata incidenza di cancro nei pazienti trattati, ma hanno scritto che “dato che la terapia a lungo termine con le statine non è stata associata ad un aumento del rischio di cancro, la differenza di incidenza di cancro osservata nello studio può essere il risultato del caso”.

 

La maggior parte degli studi sulle statine terminano dopo 2-5 anni, un periodo di tempo troppo corto per valutare lo sviluppo della maggior parte dei tumori. In questo contesto è da notare che uno studio caso-controllo a lungo termine su varie migliaia di donne ha mostrato che il numero di neoplasie mammarie raddoppiava tra chi assumeva statine per più di 10 anni (OR 2.00; 1.26-3.17). Se le statine siano carcinogene o meno è una questione aperta. In ogni caso è forte l’evidenza che la riduzione del colesterolo e l’uso di statine sono entrambi associati ad un aumento del rischio di cancro.

 

Conclusione

 

La ricerca sulle statine è caratterizzata da una strategia di presentazione dei dati in cui le statistiche di rischio relativo e rischio assoluto sono state volutamente utilizzate da un lato per amplificare l’apparenza del beneficio, dall’altro per minimizzare i seri eventi avversi, che sono stati ignorati o spiegati in modo che sembrassero verificarsi per caso. Anche se solo il 10% dei pazienti che assumono statine dovesse presentare un evento avverso, il risultato sarà che milioni di persone sane diventeranno pazienti e sperimenteranno effetti avversi senza beneficio.

 

I punti da ricordate

 

  • Presentare i dati in termini di rischio relativo ha intenzionalmente fuorviato il pubblico così da esagerare il minuscolo beneficio delle statine.
  • Gli studi sulla riduzione del colesterolo in prevenzione primaria non hanno dimostrato di ridurre la mortalità e allungare la vita.
  • La riduzione della mortalità cardiovascolare negli studi di prevenzione secondaria è abbastanza bassa e raramente eccede il 2%.
  • I seri effetti collaterali del trattamento con le statine sono estremamente sottostimati. Gli effetti avversi del trattamento con statine sono molti e riguardano: diabete, alterazioni cognitive, cataratta, cancro, alterazioni muscolo scheletriche.
  • Il piccolo beneficio visto negli studi di riduzione del colesterolo è indipendente dal grado di riduzione del colesterolo.
  • Gli approcci per ridurre la mortalità cardiovascolare dovrebbero enfatizzare altri interventi: la cessazione del fumo, evitare l’obesità, il consumo di cibi poco zuccherati e di grassi parzialmente idrogenati.

 

A cura di Luca Iaboli

 

1. Diamond DM, Ravnskov U. How statistical deception created the appearance that statins are safe and effective in primary and secondary prevention of cardiovascular disease. Expert Rev Clin Pharmacol 2015;8(2):201–10 http://www.drperlmutter.com/wp-content/uploads/2015/02/Statin-data-corruption.pdf

La tombola del conflitto d’interessi

Nel numero di Natale, il BMJ, come consuetudine, pubblica articoli paradossali, paludati però di finta scientificità. Da leggere, ad esempio, “Zombie infections: epidemiology, treatment, and prevention”, in cui si descrive l’azione del virus Solanum (nome scientifico della patata!), che ha il 100% di mortalità. Divertente è pure l’articoletto tradotto qui sotto, dove viene presentata una tabella che elenca le varie giustificazioni avanzate dalla parte più permissiva del nostro io in caso di conflitto d’interessi (http://www.bmj.com/content/351/bmj.h6577). Buona lettura,

 

Giovanni Peronato

 

La tombola del conflitto d’interessi

(Pubblicato il 16 Dicembre 2015)

Citazione: BMJ 2015;351:h6577

Daniel S Goldberg, assistant professor, Department of Bioethics and Interdisciplinary Studies, Brody School of Medicine, East Carolina University; 2015-16 Honors College Faculty fellow, 600 Moye Blvd, Mailstop 641, Greenville, NC 27834, USA

 

Ho passato anni a studiare, insegnare e scrivere sul conflitto di interessi. In tutto questo tempo, ho visto proporre centinaia di giustificazioni per il profondo intreccio di interessi fra medici, scienziati e industria farmaceutica. Vi sono molte plausibili argomentazioni dietro queste relazioni, ma gli attori dell’intreccio le invocano raramente. Le motivazioni abitualmente fornite tradiscono invece la mancanza di una qualsivoglia familiarità con le sostanziose prove di efficacia che stanno dietro queste distorsioni e il conseguente impatto sul comportamento umano, compreso quello di medici e ricercatori. Qualsiasi ragionevole tentativo di giustificare intense relazioni con l’industria e il mercato deve cominciare con il prendere atto di queste prove, piuttosto che tirare in ballo giustificazioni stantie, in gran parte contraddette dalla letteratura. L’affermazione che esistono barriere sufficienti per evitare il conflitto di interessi, quali l’etica del singolo, la loro gestione istituzionale o i vari tipi di dichiarazione di conflitto d’interesse, non è basata su alcuna prova.

 

Dopo aver letto l’ennesima serie delle solite trite e ritrite giustificazioni, ho deciso di comporre una cartella per la tombola del conflitto d’interesse, allo scopo di irridere le giustificazioni più comunemente avanzate e di mostrarne la tipicità; tipicità che, ribadisco, è contraria a qualsiasi sana e robusta prova.

 

I medici e i ricercatori professano spesso un impegno a seguire le prove di efficacia, ovunque esse conducano. Coloro che cercano di giustificare ad ogni costo le profonde relazioni con l’industria dovrebbero seguire questa massima e familiarizzarsi con le prove relative al conflitto d’interessi e alle distorsioni che esso comporta. Da cui la cartella per la tombola sul conflitto d’interessi.

 

la sponsorizzazione è necessaria per avere i migliori esperti non facciamo di tutta l’erba un fascio è solo una biro sono i ricercatori che controllano il lavoro lo sponsor non ha nessuna influenza
è un regalo educativo i miei pazienti/ i miei dati hanno sempre la precedenza la scienza parla da sé siamo noi al comando è più facile lavorare con che contro l’industria
è più complesso di quello che sembra la ricerca è costosa CREAM* spazio libero non è corruzione vuoi impedire il progresso?
siamo totalmente trasparenti il denaro non mi influenza è solo una svista è solo una consulenza è innovazione
basta una corretta gestione è sufficiente dichiarare il conflitto d’interesse non esistono prove di una relazione causale come osi! l’integrità scientifica significa tutto per me

* Cash Rules Everything Around Me (il denaro domina tutto attorno a me)