SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.238 DEL 29/12/15

SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.238 DEL 29/12/15   INDICE Lavoro notturno e gestione della salute e della sicurezza Attenzione alle visite e ai giudizi del medico…

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SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.238 DEL 29/12/15

 

INDICE

  • Lavoro notturno e gestione della salute e della sicurezza
  • Attenzione alle visite e ai giudizi del medico competente
  • L’amianto presente nell’80% delle ristrutturazioni e demolizioni
  • Il nuovo Codice prevenzione incendi: il sistema di esodo
  • Differenze di genere: rischi psicosociali, stress e suicidi
  • Ponteggi metallici: le norme ci sono, ma bisogna applicarle

 

Invito ancora tutti i compagni della mia mailing list che riceveranno queste notizie a diffonderle in tutti i modi.

La diffusione è gradita e necessaria. L’obiettivo è quello di diffondere il più possibile la cultura della salute e della sicurezza e la consapevolezza dei diritti dei lavoratori a tale proposito.

L’unica preghiera, per gli articoli firmati da me, è quella di citare la fonte.

 

Marco Spezia

ingegnere e tecnico della salute e della sicurezza sul lavoro

Progetto “Sicurezza sul Lavoro! Know Your Rights”

Medicina Democratica

sp-mail@libero.it

https://www.facebook.com/profile.php?id=100007166866156

http://www.medicinademocratica.org/wp/?cat=210

 

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LAVORO NOTTURNO E GESTIONE DELLA SALUTE E DELLA SICUREZZA

LE CONSULENZE DI SICUREZZA – KNOW YOUR RIGHTS! – N.70

 

Come sapete, uno degli obiettivi del progetto SICUREZZA – KNOW YOUR RIGHTS! è anche quello di fornire consulenze gratuite a tutti coloro che ne fanno richiesta, su tematiche relative a salute e sicurezza sui luoghi di lavoro.

Da quando è nato il progetto ho ricevuto decine di richieste e devo dire che per me è stato motivo di orgoglio poter contribuire con le mie risposte a fare chiarezza sui diritti del lavoratori.

Mi sembra doveroso condividere con tutti quelli che hanno la pazienza di leggere le mie newsletters, queste consulenze.

Esse trattano di argomenti vari sulla materia e possono costituire un’utile fonte di informazione per tutti coloro che hanno a che fare con casi simili o analoghi.

Ovviamente per evidenti motivi di riservatezza ometterò il nome delle persone che mi hanno chiesto chiarimenti e delle aziende coinvolte.

Marco Spezia

 

 

QUESITO

 

Buongiorno Marco,

la mia azienda intende introdurre in alcuni reparti il lavoro notturno (dalle 9 di sera alle 5 di mattina).

In realtà questo non sarebbe per tutto il periodo dell’anno, ma solo in presenza di picchi di richieste e quindi necessità di aumentare la produzione.

L’ufficio del personale e la produzione parlano di un periodo complessivo non superiore ai 30 giorni nell’arco dell’anno.

Ti volevo chiedere se abbiamo diritto a misure di sicurezza particolari visto che faremo questo lavoro notturno, quando in fabbrica mancheranno molti dei servizi che ci sono a giornata (responsabile sicurezza, addetti primo soccorso e antincendio).

Ti ringrazio.

 

 

RISPOSTA

 

Prima di addentrarmi sull’argomento che mi poni è bene verificare se nel vostro caso si possa parlare di lavoro notturno, come definito dalla normativa vigente.

A tale proposito ho riportato in fondo il Punto 18 della Circolare del Ministero del Welfare n.8 del 3 marzo 2005, che trovi integralmente ad esempio al link:

http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Speciali/2006/documenti_lunedi/09gennaio2006/FERIE/CIR_3_3_2005_8.pdf?cmd%3Dart

Tale Circolare, interpretativa del Decreto Legislativo n.66 del 8 aprile 2003 e successive modifiche e integrazioni , che trovi ad esempio al link:

http://www.dplmodena.it/leggi/66-03_Collegato%20Lavoro.pdf

definisce in maniera molto chiara cosa deve intendersi per “lavoratore notturno”.

 

Secondo tali fonti normative, il caso da te citato, in cui il lavoratore esegue un turno di 8 ore di cui almeno 7 nel periodo notturno come sopra definito, ma per meno di 80 giorni all’anno non rientra nella definizione di “lavoratore notturno”.

In ogni caso, anche se i lavoratori coinvolti non possano essere identificati come “lavoratori notturni” secondo il D.Lgs.66/03, ciò nondimeno parte della attività della tua azienda avviene nel “periodo notturno” come definito dal medesimo Decreto.

 

Pertanto (ma questa è mia interpretazione) gli obblighi di cui all’articolo 14 del D.Lgs.66/03, si devono applicare alla tua azienda nel periodo di lavoro notturno, cioè dalle 24 alle 5, indipendentemente se i lavoratori possano essere classificati come “lavoratori notturni” secondo le definizioni e i chiarimenti di cui sopra.

 

In particolare devono essere adottati gli obblighi di cui all’articolo 14, comma 2:

Durante il lavoro notturno il datore di lavoro garantisce, previa informativa alle rappresentanze sindacali di cui all’articolo 12 [rappresentanze sindacali in azienda], un livello di servizi o di mezzi di prevenzione o di protezione adeguato ed equivalente a quello previsto per il turno diurno”.

Quanto sopra deve essere garantito sia per l’aspetto routinario delle attività lavorative, sia, in particolare, per la gestione delle situazioni di emergenza che dovessero manifestarsi.

 

Comunque, al di là della mia interpretazione di quanto disposto dal D.Lgs.66/03, a seguito delle modifiche organizzative comportate dal passaggio a lavoro notturno, anche se parziale, il datore di lavoro della tua azienda ha l’obbligo di aggiornare il Documento di Valutazione dei Rischi (DVR) di cui agli articoli 17, comma 1, lettera a), 28 e 29 del Decreto Legislativo n.81 del 9 aprile 2008 (D.Lgs.81/08).

 

Infatti l’articolo 29, comma 3, del D.Lgs.81/08 impone (a seguito delle ultime modifiche operate dalla Legge 161 del 2014:

La valutazione dei rischi deve essere immediatamente rielaborata, nel rispetto delle modalità di cui ai commi 1 e 2, in occasione di modifiche del processo produttivo o della organizzazione del lavoro significative ai fini della salute e sicurezza dei lavoratori […]. A seguito di tale rielaborazione, le misure di prevenzione debbono essere aggiornate. Nelle ipotesi di cui ai periodi che precedono il documento di valutazione dei rischi deve essere rielaborato, nel rispetto delle modalità di cui ai commi 1 e 2, nel termine di trenta giorni dalle rispettive causali. Anche in caso di rielaborazione della valutazione dei rischi, il datore di lavoro deve comunque dare immediata evidenza, attraverso idonea documentazione, dell’aggiornamento delle misure di prevenzione e immediata comunicazione al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza. A tale documentazione accede, su richiesta, il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza”.

 

Pertanto il datore di lavoro (e la responsabilità è esclusivamente sua, ai sensi dell’articolo 17, comma 1, lettera a) del D.Lgs.81/08) deve, prima dell’inizio dei lavori con orario notturno, definire formalmente misure di prevenzione e protezione specifiche conseguenti al mutato scenario di rischio e darne comunicazione al Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza (RLS).

 

Entro trenta giorni poi dall’inizio del lavoro notturno, il DVR deve essere rielaborato, comprendendo anche le misure di prevenzione e protezione sopra specificate.

Ovviamente il RLS deve essere consultato preventivamente in merito alla modifica del DVR e ha la facoltà di consultare il DVR stesso, ai sensi dell’articolo 50, comma 1 lettere b) ed e) del D.Lgs.81/08 rispettivamente.

 

La modifica del DVR (così come la sua redazione) deve essere eseguita dal datore di lavoro, con la collaborazione del medico competente e del Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione (articolo 29, comma 1 del D.Lgs.81/08).

 

In particolare il medico competente dovrà verificare se le mutate variazioni organizzative non richiedano una modifica al protocollo di sorveglianza sanitaria, di cui agli articoli 25, comma 1, lettera b) e 41 del D.Lgs.81/08.

Quindi (ma anche questa è una mia interpretazione), anche se, ai sensi del D.Lgs.66/03 non è obbligatoria la sorveglianza sanitaria specifica di verifica e di controllo della idoneità sanitaria alla mansione dei lavoratori notturni, il medico competente dovrà comunque esprimere un suo giudizio sulla idoneità sanitaria alla mansione dei lavoratori, a fronte del mutamento organizzativo.

E sempre seconde me, il medico competente dovrebbe esprimere in maniera formale la necessità o meno di variazione del protocollo di sorveglianza sanitaria.

 

In merito alle altre misure di prevenzione e protezione, il datore di lavoro deve verificare che il mutamento organizzativo non comporti un aumento o un’aggiunta di rischio e definire di conseguenza specifiche misure di prevenzione e protezione.

 

Per quanto riguarda l’aspetto routinario della attività lavorativa, il datore di lavoro dovrà valutare l’influenza dei seguenti aspetti sul profilo di rischio:

  • illuminazione artificiale dei luoghi di lavoro (punto 1.10 dell’allegato IV del D.Lgs.81/08);
  • parametri microclimatici (punto 1.9 dell’allegato IV del D.Lgs.81/08);
  • stress lavoro correlato (articolo 28, comma 1, del D.Lgs.81/08);
  • manutenzione e controllo delle attrezzature utilizzate (in assenza di una squadra di manutenzione) (articolo 71, comma 4 del D.Lgs.81/08).

 

Per quanto riguarda invece le situazioni di emergenza, il datore di lavoro dovrà valutare l’influenza dei seguenti aspetti sul profilo di rischio:

  • presenza degli addetti al designare preventivamente i lavoratori incaricati dell’attuazione delle misure di prevenzione incendi e lotta antincendio, di evacuazione dei luoghi di lavoro in caso di pericolo grave e immediato, di salvataggio, di primo soccorso e, comunque, di gestione dell’emergenza (articoli 18, comma 1, lettera b) e 43, comma 2 del D.Lgs.81/08);
  • possibilità di contattare i servizi pubblici competenti in materia di primo soccorso, salvataggio, lotta antincendio e gestione dell’emergenza (articolo 43, comma 1, lettera a) del D.Lgs.81/08);
  • possibilità che i lavoratori, in caso di pericolo grave e immediato che non può essere evitato, possano cessare la loro attività, o mettersi al sicuro, abbandonando immediatamente il luogo di lavoro (articolo 43, comma 1, lettera d) del D.Lgs.81/08);
  • possibilità per i lavoratori, in caso di pericolo grave e immediato per la propria sicurezza o per quella di altre persone e nell’impossibilità di contattare il competente superiore gerarchico, possano prendere le misure adeguate per evitare le conseguenze di tale pericolo, tenendo conto delle sue conoscenze e dei mezzi tecnici disponibili (articolo 43, comma 1, lettera e) del D.Lgs.81/08).

 

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CIRCOLARE DEL MINISTERO DEL WELFARE N.8 DEL 3 MARZO 2005

 

18 “LAVORO NOTTURNO”

Gli articoli dall’11 al 15, in materia di lavoro notturno, riprendono in larga misura il contenuto del decreto legislativo n. 532 del 1999 con il quale era stata data attuazione alla delega conferita al Governo dall’art. 17, comma 2 della legge n. 25 del 1999, nonché alla direttiva 93/104.

La normativa di cui ai citati articoli non si allontana, sostanzialmente, da quella del 1999, ma viene riordinata e razionalizzata.

 

DEFINIZIONE DI LAVORO E DI LAVORATORE NOTTURNO

Il lavoro notturno è quello prestato in un periodo di almeno sette ore consecutive comprendenti l’intervallo tra la mezzanotte e le cinque del mattino.

Quindi il lavoro notturno è quello svolto tra le 24 e le 7, ovvero tra le 23 e le 6, ovvero tra le 22 e le 5, indipendentemente dalla eventuale maggiorazione retributiva prevista dalla contrattazione collettiva.

Il lavoratore notturno è il lavoratore che svolge, durante il periodo notturno, almeno tre ore del suo tempo di lavoro giornaliero impiegato in modo normale; è, inoltre, lavoratore notturno anche colui che svolge durante il periodo notturno almeno una parte del suo orario di lavoro secondo le norme definite dai contratti collettivi di lavoro. Qualora la disciplina collettiva nulla stabilisca sul punto è considerato lavoratore notturno qualsiasi lavoratore che svolga, durante il periodo notturno almeno una parte del suo tempo di lavoro giornaliero, per un minimo di 80 giorni lavorativi all’anno.

Quest’ultimo criterio di definizione del lavoratore notturno non va a sovrapporsi con il primo in quanto prende in considerazione lo svolgimento di una prestazione lavorativa in parte esercitata durante il periodo notturno, a prescindere che l’attività in oggetto rientri nell’orario normale di lavoro. Quindi, deve considerarsi lavoratore notturno anche colui che non sia impiegato in modo normale durante il periodo notturno ma che, nell’arco di un anno, svolga almeno 80 giorni di lavoro notturno. Ad esempio se al lavoratore è richiesto lo svolgimento, per esigenze contingenti, di prestazioni durante il periodo notturno, tale prestatore è considerato lavoratore notturno ai fini della disciplina in oggetto se detto periodo, anche frazionato, abbia durata di almeno 80 giorni lavorativi nell’arco temporale di un anno solare.

Ove il limite degli 80 giorni venga superato in ragione del sopravvenire di eventi eccezionali e straordinari (gravi incidenti agli impianti o nell’esercizio di particolari servizi, calamità naturali), non potrà configurarsi la fattispecie in esame.

Il suddetto limite minimo è riproporzionato in caso di lavoro a tempo parziale.

Il lavoratore, per poter svolgere prestazioni di lavoro notturno, deve esserne ritenuto idoneo mediante accertamento ad opera delle strutture sanitarie pubbliche competenti o per il tramite del medico competente.

I lavoratori notturni, la cui idoneità sia già stata verificata ai sensi della legge previgente, non devono essere sottoposti ad un nuovo accertamento.

Oltre a questa iniziale valutazione che deve precedere l’esecuzione di prestazioni di lavoro notturno, lo stato di salute dei lavoratori notturni deve essere periodicamente verificato. La periodicità di tali controlli è individuata dal legislatore in almeno due anni. I controlli potranno essere più frequenti sia nel caso in cui il medico competente abbia prescritto una periodicità inferiore sia nel caso in cui siano mutati i rischi relativi alle lavorazioni cui il lavoratore è addetto.

Tali controlli devono essere effettuati dalle competenti strutture sanitarie pubbliche, o dal medico competente di cui all’articolo 17 del decreto legislativo n. 626 del 1994. In ogni caso tali controlli devono avvenire a cura e spese del datore di lavoro.

 

LIMITAZIONI AL LAVORO NOTTURNO

L’esecuzione di prestazioni di lavoro notturno è obbligatoria per i lavoratori idonei fatto salvi i casi di divieto o di esclusione dall’obbligo di eseguire la prestazione.

È vietato adibire al lavoro dalle 24 alle 6 le donne in gestazione dall’accertamento dello stato di gravidanza fino al compimento di un anno di età del bambino o, comunque, dal momento in cui il datore di lavoro ha avuto conoscenza della fattispecie generatrice del divieto.

Alcuni lavoratori hanno facoltà di non prestare lavoro notturno dandone comunicazione, in forma scritta, al datore di lavoro entro 24 ore precedenti al previsto inizio della prestazione. Il datore ha facoltà di accettare la comunicazione del rifiuto avvenuta in un termine inferiore rispetto a quello previsto.

L’individuazione dei requisiti dei lavoratori che determinano l’insorgere della facoltà sono stabiliti dai contratti collettivi. Il decreto prevede, inoltre, che abbiano facoltà di rifiutarsi di prestare lavoro notturno:

  • la lavoratrice subordinata, madre di un figlio di età inferiore di tre anni o, qualora la stessa non abbia esercitato la facoltà di rifiutare l’esecuzione di prestazioni di lavoro notturno;
  • il lavoratore padre convivente che sia anch’esso lavoratore subordinato;
  • l’unico genitore affidatario e convivente di un minore di età inferiore a 12 anni;
  • coloro che abbiano a loro carico un soggetto disabile ai sensi della legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate.

 

OBBLIGHI DI COMUNICAZIONE

Il datore di lavoro ha l’obbligo di comunicare per iscritto, annualmente, l’esecuzione di lavoro notturno continuativo oppure compreso in turni periodici regolari.

La comunicazione deve essere effettuata ai servizi ispettivi della DPL competente e alle organizzazioni sindacali titolari del diritto ad essere consultate al fine dell’introduzione del lavoro notturno.

Se il contratto collettivo applicato in azienda disciplina in modo specifico l’esecuzione di lavoro notturno continuativo oppure compreso in turni periodici regolari, non sorge l’obbligo di comunicazione.

 

DURATA DELLA PRESTAZIONE

Ai sensi dell’articolo 13 del D.Lgs. n. 66/2003, per tutti i lavoratori notturni, l’orario non può superare le 8 ore, in media, nell’arco di 24 ore calcolate dal momento di inizio dell’esecuzione della prestazione lavorativa.

Tale limite costituisce, data la sua formulazione, un media fra ore lavorate e non lavorate pari ad 1/3 (8/24) che, in mancanza di una esplicita previsione normativa, può essere applicato su di un periodo di riferimento pari alla settimana lavorativa – salva l’individuazione da parte dei contratti collettivi, anche aziendali, di un periodo più ampio sul quale calcolare detto limite – considerato che il Legislatore ha in più occasioni adoperato l’arco settimanale quale parametro per la quantificazione della durata della prestazione (vedi ad esempio gli articoli 3 e 4 del D.Lgs. n. 66/2003 in materia di orario normale di lavoro e orario medio).

Per il settore della panificazione industriale la media su cui calcolare il limite di durata della prestazione lavorativa è riferito, comunque, alla settimana lavorativa e, pertanto, la norma si configura quale limite alla contrattazione collettiva di estendere ulteriormente il periodo di riferimento sul quale calcolare l’orario di lavoro.

Inoltre, conformemente alla direttiva 93/104/CE, per alcune lavorazioni che comportano rischi particolari o rilevanti tensioni fisiche o mentali, il limite orario è di otto ore nel corso di ogni periodo di 24 ore. In questo caso il limite è fisso e non va considerato come media.

L’individuazione di tali lavorazioni è rimessa ad un decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali – di concerto col Ministro per la funzione pubblica per quanto riguarda, in modo non esclusivo, i pubblici dipendenti – previa consultazione delle organizzazioni sindacali nazionali dei lavoratori e dei datori di lavoro.

Per le materie di esclusivo interesse dei pubblici dipendenti il decreto è adottato dal ministro della funzione pubblica di concerto col Ministro del lavoro e delle politiche sociali.

La durata massima della settimana lavorativa non potrà, quindi, superare le 48 ore comprensive delle ore di straordinario, tenendo presente che queste ultime non potranno essere superiori, in assenza di determinazioni collettive, di 250 ore annue.

Nel computo della media su cui calcolare il limite delle 8 ore non si deve tener conto del periodo di riposo minimo settimanale quando questo ricade nel periodo di riferimento stabilito dai contratti collettivi.

 

TRASFERIMENTO AL LAVORO DIURNO

Qualora sopraggiungano condizioni di salute che comportino l’inidoneità alla prestazione di lavoro notturno il lavoratore può essere trasferito al lavoro diurno.

La sopraggiunta inidoneità deve essere accertata dalle competenti strutture sanitarie pubbliche o dal medico competente.

Il decreto dispone che il trasferimento al lavoro notturno è subordinato alla esistenza e alla disponibilità di un posto di lavoro la cui esecuzione sia relativa a mansioni equivalenti a quelle svolte. In mancanza di tali condizioni il datore di lavoro ha facoltà di risolvere il rapporto di lavoro per giustificato motivo oggettivo.

Alla contrattazione collettiva è attribuita la facoltà di definire le modalità di applicazione delle disposizioni illustrate in materia di trasferimento al lavoro diurno e di individuare le soluzioni per le ipotesi in cui manchino le condizioni per l’assegnazione al lavoro diurno del prestatore di lavoro notturno.

Quindi, mentre il decreto legislativo n. 532 del 1999 stabiliva che il trasferimento al lavoro diurno o ad altra mansione era automatico, con la nuova disciplina tale trasferimento è vincolato alla disponibilità in azienda, secondo le modalità stabilite dalla contrattazione collettiva che potrà ricercare anche soluzioni alternative in caso di inesistenza di altro posto di lavoro disponibile.

 

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ATTENZIONE ALLE VISITE E AI GIUDIZI DEL MEDICO COMPETENTE

 

Da FILCAMS CGIL Lombardia

http://www.rlsfilcams-lombardia.org

 

Si rivolgono sempre più spesso a noi, lavoratori, che a seguito di visita dal Medico competente, ci segnalano di aver ricevuto dallo stesso l’invito a continuare la malattia in quanto a parere del Medico competente sono inidonei a riprendere la propria attiva lavorativa.

Questo avviene nella gran parte dei casi a voce e in altri per iscritto con diciture tutt’altro che inattaccabili. Spesso i lavoratori accettano quanto loro viene detto o scritto senza valutarne a pieno le conseguenze.

 

Per questo pensiamo utile ricordare a tutti quali le norme e la procedura da seguire:

  • il lavoratore non si può rifiutare di sostenere le visite mediche disposte dal Datore di Lavoro (articolo 20, comma 2, lettera i) del D.Lgs.81/08);
  • i costi sono a totale carico del datore di lavoro (articolo 15, comma 2 del Decreto).
  • le visite siano esse preventive all’applicazione, periodiche legate al programma di sorveglianza sanitaria, richieste dal lavoratore o conseguenti ad assenze superiori a 60 giorni non devono essere fatte quando il lavoratore è in malattia;
  • dopo la visita il Medico competente deve redigere il proprio giudizio che può essere d’idoneità, idoneità parziale, temporanea o permanente, con prescrizioni e limitazioni, inidoneità temporanea, inidoneità permanente (articolo 41, comma 5 del Decreto).
  • in caso d’inidoneità temporanea vanno indicati i limiti temporali. (articolo 41, comma 7 del Decreto);
  • qualora il giudizio del Medico competente preveda un’inidoneità alla mansione specifica, il Datore di Lavoro deve adibire il lavoratore (se possibile) a mansioni equivalenti o, in difetto, a mansioni inferiori, garantendo il trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza (articolo 42 del Decreto).

 

Chiaro è che l’invito verbale a mettersi in malattia non rientra nelle norme citate.

Il Medico competente può ritenere che un dipendente sano (se è stato in malattia o in infortunio ed è stato giudicato idoneo a riprendere il lavoro dal medico di base) sia inidoneo a svolgere questa o quella mansione in funzione dei rischi a cui è sottoposto.

Ma nel caso il Medico competente giudichi un dipendente che svolge un’attività specifica questo non significa che sia inidoneo a svolgere tutte le mansioni.

 

Proprio perché il Medico Competente, ha partecipato alla valutazione del rischio e ha visitato gli ambienti di lavoro, potrebbe tranquillamente indicare eventuali mansioni cui il dipendente può essere adibito nell’ambito della propria azienda.

 

Un paio di esempi.

 

Un lavoratore della Grande Distribuzione Organizzata addetto al rifornimento, a causa di problemi ai piedi, non può per un certo periodo utilizzare le calzature antinfortunistiche previste per la propria mansione. Questo non significa automaticamente che non possa essere trovata una collocazione lavorativa all’interno dell’azienda ove le calzature antinfortunistiche non sono obbligatorie ove applicarlo, ad esempio alla cassa.

 

Una commessa della moda per problemi al rachide non può stare in piedi continuativamente per otto ore, non significa automaticamente che possa essere giudicata inidonea alla mansione. E’ possibile, infatti, definire pause di riposo o di altra attività non in posizione eretta.

 

Chi accetta supinamente indicazioni verbali a rimettersi in malattia, o un responso scritto d’inidoneità lavorativa di dubbia validità senza presentare ricorso avverso entro trenta giorni dal ricevimento all’ASL di competenza (articolo 41, comma 9 del Decreto) rischia nel peggiore dei casi di ritrovarsi (come già capitato) una lettera di licenziamento per superamento dei periodi di comporto.

 

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L’AMIANTO PRESENTE NELL’80% DELLE RISTRUTTURAZIONI E DEMOLIZIONI

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

15 dicembre 2015

di Tiziano Menduto

L’Italia è un paese pieno di amianto, con bonifiche insufficienti e un’insufficiente attenzione e tutela della popolazione e dei lavoratori. Cosa si dovrebbe fare? Ne parliamo con Stefano Farina di AIFOS (Associazione Italiana Formatori e Operatori della Sicurezza) e Paolo Varesi della Commissione Consultiva.

 

Che la presenza nel nostro paese di fibre d’amianto e la necessità di idonee bonifiche siano ormai da considerare una emergenza nazionale, è emerso anche dalla recente “Assemblea Nazionale sull’Amianto” che si è tenuta il 30 novembre al Senato e che ha parlato anche concretamente della possibilità di un futuro Testo Unico. Un Testo Unico in grado di dare organicità alla materia, raccordando le oltre 400 norme regionali e nazionali sull’amianto, e offrire tutela e aiuto ai familiari delle vittime, come richiesto anche da Camilla Fabbri, presidente della Commissione di Inchiesta sugli infortuni sul lavoro del Senato.

 

E tutto questo in un paese, come il nostro, in cui l’amianto è stato massicciamente utilizzato. Un paese, come ha ricordato all’Assemblea il presidente dell’INPS Tito Boeri, in cui si procede troppo lentamente con le bonifiche. Infatti riguardo alla quantità di amianto, “sul territorio italiano sono ancora presenti 32 milioni di tonnellate. A questo ritmo di bonifica, occorrerebbero ancora 85 anni, un’infinità…”.

Del rinnovato impegno a liberare l’Italia dall’amianto e ad aumentare l’attenzione verso questo pericolosissimo materiale, vogliamo parlare anche noi di PuntoSicuro pubblicando una recente intervista sul tema amianto che abbiamo realizzato durante la manifestazione Ambiente Lavoro che si è tenuta a Bologna nel mese di ottobre.

Con i nostri microfoni abbiamo raccolto le esperienze e le indicazioni di Stefano Farina (coordinatore della sicurezza e responsabile del settore costruzioni di AIFOS) e Paolo Varesi (componente della Commissione Consultiva, ex articolo 6 del D.Lgs.81/08) a margine del convegno, organizzato dall’associazione ANMIL (Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi del Lavoro), dal titolo “Rischio amianto: il quadro informativo aggiornato e gli strumenti pratici per la migliore assistenza e tutela” (Bologna, 14 ottobre 2015). I due intervistati erano relatori del convegno sul tema specifico della “Valutazione della presenza di amianto nei cantieri di ristrutturazione e in agricoltura”.

A 23 anni dalla Legge n. 257 del 27 marzo 1992, contenente le “Norme relative alla cessazione dell’impiego dell’amianto”, chiediamo innanzitutto ai due relatori quale sia la dimensione del problema amianto in edilizia e agricoltura. Accade spesso in questi comparti che ci si trovi ad avere a che fare con materiale in amianto?

Rimandando per le risposte alla trascrizione dell’intervista, che ci ricorda come nei cantieri di ristrutturazione o demolizione di edifici “circa nell’80% dei casi si riscontra la presenza di amianto” e dell’abitudine a utilizzare l’amianto nel mondo agricolo, nei palazzi pubblici e nelle tubazioni, chiediamo ai due relatori anche informazioni più dettagliate sulla tutela dei lavoratori.

In edilizia quando si progetta una ristrutturazione si pensa all’amianto?

E il manutentore cosa deve fare se si trova di fronte a materiali contenenti amianto?

Quali sono invece le procedure da seguire laddove si sa che è presente amianto?

Non possiamo poi non soffermarci a quanto fatto in questi anni dalla Commissione Consultiva e sulle necessità odierne a livello procedurale e normativo.

In Commissione Consultiva si sta lavorando per migliorare la prevenzione del fenomeno amianto?

In questi anni è cambiato qualcosa dal punto di vista normativo e procedurale riguardo alla sicurezza per esposti all’amianto?

Quali sono le problematiche che dovrebbe affrontare oggi il legislatore?

Chi sono i lavoratori più esposti al rischio amianto?

L’intervista si conclude elencando le iniziative più urgenti.

Ad esempio, ricorda Paolo Varesi, è necessario “instaurare anche un po’ di paura”. Stiamo parlando di una malattia, quella correlata alla presenza di amianto, “che ha una latenza lunghissima, addirittura di 30/40 anni, e che non lascia scampo. Si muore, non c’è speranza di vita. E questa malattia colpisce spesso persone che hanno avuto una attività professionale che le ha messe in contatto con l’amianto, ma anche persone che, nel 20% dei casi, non riescono a spiegare come sia avvenuto il contatto con la fibra…”.

Ci vorrebbe dunque “una giornata nazionale da dedicare al’amianto, un momento di riflessione collettiva che non coinvolga soltanto gli addetti ai lavori”. E, ricorda infine anche Stefano Farina, necessita anche una “diffusione capillare della formazione”.

Come sempre diamo ai nostri lettori la possibilità di ascoltare integralmente l’intervista, al link:

https://www.youtube.com/watch?v=Bp9SRWxO2JI

e/o di leggerne una parziale trascrizione.

ARTICOLO E INTERVISTA A CURA DI TIZIANO MENDUTO

Cominciamo a cercare di comprendere la dimensione del problema della presenza di amianto in edilizia e agricoltura. Accade spesso in questi comparti che ci si trovi ad avere a che fare con materiale in amianto?

Stefano Farina

Secondo quella che è la mia esperienza, nei cantieri di ristrutturazione o demolizione di edifici circa nell’80% dei casi abbiamo riscontrato la presenza di amianto. Una quantità molto elevata che non sempre è visibile. Tante volte ci si sofferma alle verifica delle coperture, mentre in realtà all’interno di strutture o finiture troviamo la presenza di queste fibre, chiamate anche “fibre killer”.

Anche in agricoltura specialmente in fase di smontaggio di capannoni o annessi agricoli si rileva la presenza di amianto. E molte volte questo amianto, soprattutto se in lastre, viene riutilizzato perché non c’è la conoscenza della sua pericolosità. La presenza di amianto si riscontra anche nel sottosuolo, in tubazioni di tipo irriguo o di acquedotti e fognature…

Nella Commissione Consultiva questa dimensione del problema è avvertita? Si sta lavorando per migliorare la prevenzione del fenomeno amianto?

Paolo Varesi

C’è una grande attenzione istituzionale. La Commissione già nel precedente mandato aveva istituito un apposito Comitato Tecnico che aveva approfondito vari aspetti in collaborazione con il Ministero della Salute e con l’INAIL. La nuova Commissione ha già previsto la permanenza di questo comitato.

Io integrerei quanto già detto da Farina, ricordando che il nostro paese è stato il più grande utilizzatore di fibra d’amianto. Ne sono presenti sul territorio milioni di tonnellate, in modo molto diffuso, perché l’utilizzo di questa fibra veniva raccomandata. Ci sono pubblicità in cui si raccomandava l’uso di questo materiale per le sue caratteristiche a livello industriale per l’isolamento termico.

Stefano Farina

E per la protezione dei lavoratori…

Paolo Varesi

Per cui non a caso in alcuni ambiti, come in agricoltura ed edilizia, oggi è difficile censire completamente la presenza di questo materiale.

La mia generazione è nata con l’Eternit che veniva utilizzato anche per realizzare la cuccia del cane. Veniva utilizzato con molta facilità, soprattutto in campagna. E viene ancora utilizzato. Ci sono regioni in cui l’Eternit è usato dalle famiglie per proteggere particolari formaggi che vengono realizzati in fossa, oppure per proteggere gli animali da cortile.

Questo è un tema che non può restare di interesse istituzionale o da addetti ai lavori ma deve permeare la popolazione attraverso tutti gli strumenti di comunicazione. Ad esempio attraverso le scuole che spesso vengono investite da questo problema e che spesso sono oggetto di attenzione perché moltissimi edifici pubblici, è stato ricordato anche recentemente dall’ex Ministro Balduzzi, sono caratterizzati dalla presenza di fibre d’amianto.

Proprio per la caratteristica del nostro paese e per l’uso che questo paese ha fatto dell’amianto noi abbiamo il problema di individuare bene tutti i siti, di fare una buona informazione, perché le persone si difendano, e soprattutto di instaurare anche un po’ di paura. E lo dico senza creare allarmismo. Il problema è che noi tema siamo abituati a vivere sulla cronaca, a prevenire l’infortunio, mentre qui stiamo parlando di una malattia che ha una latenza lunghissima, addirittura di 30/40 anni, e che non lascia scampo. Si muore, non c’è speranza di vita. E questa malattia colpisce spesso persone che hanno avuto una attività professionale che le ha messe in contatto con l’amianto, ma anche persone che, nel 20% dei casi, non riescono a spiegare come sia avvenuto il contatto con la fibra.

In edilizia quando, ad esempio, si pianifica, si progetta una ristrutturazione si pensa all’amianto?

Stefano Farina

Sicuramente si dovrebbe pensare all’amianto facendo campionamenti, sopralluoghi e vedendo, locale per locale, se c’è presenza di amianto.

Molte volte invece questo controllo viene fatto solo a livello visivo, per cui si guardano le superfici in cui è quasi assodato ci sia la presenza di amianto mentre non si vanno ad approfondire altri aspetti.

E sappiamo che l’amianto può trovarsi in realtà anche nelle contropareti, all’interno degli sfiati e anche dietro a stufe. C’erano infatti i cartonati di amianto che venivano utilizzati dietro stufe e termosifoni per isolare la parete.

Un altro problema è relativo alle caldaie. Sappiamo che molte guarnizioni e rivestimenti delle caldaie contengono amianto…

Per cui parliamo anche di rischi nelle manutenzioni…

Stefano Farina

Parliamo di manutenzioni e anche soprattutto di situazioni dove magari una caldaia è stata dismessa, ma è stata lasciata in ambiente e la fibra d’amianto rimane. E quando si fa la manutenzione successiva, il manutentore è esposto all’amianto.

Parliamo anche di rivestimenti di tubazioni (idriche, riscaldamento, ecc.). Anche in questo caso mi è capitato di vedere isolazioni completamente danneggiate, con perdita di fibra, anche in ambienti pubblici. E il manutentore è totalmente esposto e non sempre è a conoscenza di questi aspetti.

E’ cambiato qualcosa in questi anni dal punto di vista normativo e procedurale riguardo alla sicurezza per esposti all’amianto? Quali sono le problematiche che dovrebbe affrontare oggi il legislatore alla luce di quanto ci avete detto? Quali sono oggi i lavoratori più a rischio riguardo all’amianto?

Paolo Varesi

A volte ci dimentichiamo che i manutentori spesso sono lavoratori stranieri che arrivano da paesi in cui non c’è questa sensibilità, dove spesso non c’è neanche una normativa che tuteli i lavoratori dall’esposizione all’amianto, e che si trovano a fare lavori (cosiddetti in economia) con un datore di lavoro che chiede la risoluzione veloce del problema manutentivo.

Per questo io dico che si devono fare grandi campagne molto aggressive per sensibilizzare le persone e anche per sensibilizzare i datori di lavoro che spesso non sono grandi imprese, dove comunque il sistema tiene, ci sono RSPP qualificati, dove c’è un sistema di collaborazione che consente questa tipologia di interventi.

Noi dobbiamo parlare della quotidianità, dell’acquirente di un appartamento di un negozio, di un appartamento, di uno stabile da ristrutturare, che spesso si rivolge a lavoratori autonomi, a piccole ditte di cittadini stranieri che fanno un lavoro in economia. Stiamo parlando di un lavoro che si fa senza orario, velocemente, senza guardare la tutela dei lavoratori. Questi sono i futuri esposti all’amianto, non sono i lavoratori che hanno la fortuna di lavorare in una grande azienda o in un grande progetto.

Per concludere cosa servirebbe dunque oggi in Italia a livello normativo o a livello di campagne di prevenzione?

Paolo Varesi

Ci vorrebbe un’attenzione politica e mediatica innanzitutto. Ci vorrebbe una giornata nazionale da dedicare all’amianto, un momento di riflessione collettiva che non coinvolga soltanto gli addetti ai lavori, ma anche tutte le associazioni, le comunità, le parrocchie, tutti quegli strumenti che possono aiutare a fare decollare questa formazione culturale.

Stefano Farina

E’ anche necessario operare per una diffusione capillare della formazione. In questi anni tanta formazione è stata fatta, ma probabilmente a livello di amianto e di conoscenza della presenza di amianto non si è sviluppato, ad esempio in edilizia e agricoltura, un sistema di passaggio di informazioni. Molte volte capita di venire consultati da colleghi e imprese dopo che l’amianto è stato trovato all’interno di un edificio con perdita di fibre.

Dobbiamo far capire prima come comportarsi e non arrivare dopo, perché dopo è tardi.

 

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IL NUOVO CODICE PREVENZIONE INCENDI: IL SISTEMA DI ESODO

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

15 dicembre 2015

 

Il nuovo codice di prevenzione incendi riporta precise indicazioni relative al sistema di esodo. Procedure ammesse, vie di esodo, luoghi sicuri, scale, illuminazione di sicurezza, segnaletica d’esodo ed orientamento.

 

Le finalità del sistema di esodo sono quelle di “assicurare che gli occupanti dell’attività possano raggiungere o permanere in un luogo sicuro, a prescindere dall’intervento dei Vigili del Fuoco”.

Inizia con queste parole il capitolo dedicato al “sistema d’esodo” e contenuto nel cosiddetto “Codice di prevenzione Incendi” relativo al Decreto del Ministero dell’Interno del 3 agosto 2015 recante “Approvazione di norme tecniche di prevenzione incendi, ai sensi dell’articolo 15 del Decreto Legislativo 8 marzo 2006, n. 139”, Codice di prevenzione che è entrato in vigore il 18 novembre 2015.

 

Riguardo a questo aspetto così importante per l’efficacia delle strategie di prevenzione antincendio nei luoghi di lavoro, ricordiamo innanzitutto che secondo il Codice le procedure ammesse per l’esodo sono tra le seguenti:

  • esodo simultaneo: modalità di esodo che prevede lo spostamento contemporaneo degli occupanti fino a luogo sicuro (l’attivazione della procedura di esodo segue immediatamente la rivelazione dell’incendio oppure è differita dopo verifica da parte degli occupanti dell’effettivo innesco dell’incendio);
  • esodo per fasi: modalità di esodo di una struttura organizzata con più compartimenti, in cui l’evacuazione degli occupanti fino a luogo sicuro avviene in successione dopo l’evacuazione del compartimento di primo innesco; si attua con l’ausilio di misure antincendio di protezione attiva, passiva e gestionali (ad esempio l’esodo per fasi si attua in edifici di grande altezza, ospedali, multisale, centri commerciali, grandi uffici, ecc.);
  • esodo orizzontale progressivo: modalità di esodo che prevede lo spostamento degli occupanti dal compartimento di primo innesco in un compartimento adiacente capace di contenerli e proteggerli fino a quando l’incendio non sia estinto o fino a che non si proceda a una successiva evacuazione verso luogo sicuro (l’esodo orizzontale progressivo si attua ad esempio nelle strutture ospedaliere);
  • protezione sul posto: modalità di esodo che prevede la protezione degli occupanti nel compartimento in cui si trovano.

Il documento “Norme tecniche di prevenzione incendi”, allegato al Decreto del 3 agosto 2015, riporta nel capitolo sull’esodo varie indicazioni relative ai livelli di prestazione, ai criteri di attribuzione dei livelli di prestazione e alle possibili soluzioni progettuali.

 

Noi ci soffermiamo invece su alcune delle caratteristiche generali del sistema d’esodo.

Ad esempio riguardo al “luogo sicuro” (luogo esterno alle costruzioni nel quale non esiste pericolo per gli occupanti che vi stazionano o vi transitano in caso di incendio) si indica che ogni luogo sicuro deve essere idoneo a contenere gli occupanti che lo impiegano durante l’esodo. La superficie lorda del luogo sicuro è calcolabile tenendo in considerazione le superfici minime per occupante riportate in una tabella contenuta nel codice.

Inoltre si considerano luogo sicuro per l’attività almeno le seguenti soluzioni:

  • la pubblica via,
  • ogni altro spazio scoperto esterno alla costruzione sicuramente collegato alla pubblica via in ogni condizione d’incendio, che non sia investito dai prodotti della combustione, in cui il massimo irraggiamento dovuto all’incendio sugli occupanti sia limitato a 2,5 kW/m2, in cui non vi sia pericolo di crolli (nel Codice è presente una metodologia per calcolare anche la distanza di separazione che limita l’irraggiamento sugli occupanti e a meno di valutazioni più approfondite da parte del progettista, la distanza minima per evitare il pericolo di crollo dell’opera da costruzione è pari alla sua massima altezza).

Infine il luogo sicuro deve essere contrassegnato con cartello UNI EN ISO 7010:2015 o equivalente.

Veniamo invece al “luogo sicuro temporaneo” (luogo interno o esterno alle costruzioni nel quale non esiste pericolo imminente per gli occupanti che vi stazionario o vi transitano in caso di incendio: da ogni luogo sicuro temporaneo gli occupanti devono poter raggiungere un luogo sicuro). In particolare si considera luogo sicuro temporaneo per un’attività almeno un compartimento adiacente a quelli da cui avviene l’esodo o uno spazio scoperto.

Veniamo alle vie d’esodo.

Riportiamo alcune indicazioni:

  • l’altezza minima delle vie di esodo è pari a 2 m; sono ammesse altezze inferiori per brevi tratti segnalati lungo le vie d’esodo da locali ove vi sia esclusiva presenza occasionale e di breve durata di personale addetto (ad esempio locali impianti);
  • non devono essere considerati ai fini del calcolo delle vie d’esodo i seguenti percorsi: scale portatili e alla marinara; ascensori; rampe con pendenza superiore all’8%; scale e marciapiedi mobili non progettati secondo le indicazioni presenti nel paragrafo 5.4.5.4 del Codice;
  • è ammesso l’uso di scale alla marinara a servizio di locali ove vi sia esclusiva presenza occasionale e di breve durata di personale addetto (ad esempio locali impianti);
  • per quanto possibile, il sistema d’esodo deve essere concepito tenendo conto che, in caso di emergenza, gli occupanti che non hanno familiarità con l’attività tendono solitamente a uscire percorrendo in senso inverso la via che hanno impiegato per entrare;
  • tutte le superfici di calpestio delle vie d’esodo devono essere non sdrucciolevoli;
  • il fumo ed il calore dell’incendio smaltiti o evacuati dall’attività non devono interferire con il sistema delle vie d’esodo.

Il Codice si sofferma poi su vari altri aspetti che riguardano il sistema d’esodo: via d’esodo protetta, via d’esodo a prova di fumo, via d’esodo esterna, via d’esodo aperta, rampe d’esodo, porte lungo le vie di esodo, uscite finali, posti a sedere fissi e mobili, affollamento, scale, segnaletica, illuminazione.

Ci soffermiamo sulle “scale d’esodo”:

  • nelle attività con massima quota dei piani superiore a 54 m almeno una scala d’esodo deve addurre anche al piano di copertura dell’edificio, qualora praticabile;
  • quando un pavimento inclinato immette in una scala d’esodo, la pendenza deve interrompersi almeno ad una distanza dalla scala pari alla larghezza della stessa;
  • le scale d’esodo devono essere dotate di corrimano laterale;
  • le scale d’esodo di larghezza maggiore di 2.400 mm dovrebbero essere dotate di corrimano centrale;
  • le scale d’esodo devono consentire l’esodo senza inciampo degli occupanti, a tal fine i gradini devono avere alzata e pedata costanti e le scale devono essere interrotte da pianerottoli di sosta;
  • dovrebbero essere evitate scale d’esodo composte da un solo gradino in quanto fonte d’inciampo; se il gradino singolo non è eliminabile, deve essere opportunamente segnalato.

Nel documento sono anche riportate le condizioni per considerare scale e marciapiedi mobili ai fini del calcolo delle vie di esodo.

Riportiamo inoltre alcune indicazioni generali relative alla segnaletica d’esodo ed orientamento.

Il sistema d’esodo (ad esempio le vie d’esodo, i luoghi sicuri, gli spazi calmi, ecc.) deve essere facilmente riconosciuto e impiegato dagli occupanti grazie ad apposita segnaletica di sicurezza. Ciò può essere conseguito anche con ulteriori indicatori ambientali quali: accesso visivo e tattile alle informazioni; grado di differenziazione architettonica; uso di segnaletica per la corretta identificazione direzionale, tipo UNI EN ISO 7010:2015 o equivalente; ordinata configurazione geometrica dell’edificio, anche in relazione ad allestimenti mobili o temporanei.

Inoltre la segnaletica d’esodo deve essere adeguata alla complessità dell’attività e consentire l’orientamento degli occupanti (wayfinding).

E a tal fine:

  • devono essere installate in ogni piano dell’attività apposite planimetrie semplificate, correttamente orientate, in cui sia indicata la posizione del lettore (ad esempio “Voi siete qui”) e il layout del sistema d’esodo (ad esempio vie d’esodo, spazi calmi, luoghi sicuri, ecc.); a tal proposito possono essere applicate le indicazioni contenute nella norma ISO 23601 “Safety identification – Escape and evacuation plan sign”;
  • possono essere applicate le indicazioni supplementari contenute nella norma ISO 16069 “Graphical symbols – Safety signs – Safety way guidance systems”.

E riguardo all’illuminazione di sicurezza deve essere installato un impianto di illuminazione di sicurezza lungo tutto il sistema delle vie d’esodo fino a luogo sicuro qualora l’illuminazione possa risultare anche occasionalmente insufficiente a garantire l’esodo degli occupanti.

Tale impianto deve assicurare un livello di illuminamento sufficiente a garantire l’esodo degli occupanti, conformemente alle indicazioni della norma UNI EN 1838:2013 o equivalente.

Il documento “Norme tecniche di prevenzione incendi”, allegato al Decreto del 3 agosto 2015, riporta infine anche precise indicazioni relative al calcolo delle vie d’esodo, alle misure antincendio minime per l’esodo e alla progettazione dell’esodo, anche con riferimento alla presenza di occupanti con disabilità.

Concludiamo questa breve presentazione del capitolo relativo all’Esodo (S.4), contenuto nel nuovo Codice di prevenzione Incendi, riportandone l’indice:

  • premessa;
  • livelli di prestazione;
  • criteri di attribuzione dei livelli di prestazione;
  • soluzioni progettuali;
  • caratteristiche generali del sistema d’esodo;
  • dati di ingresso per la progettazione del sistema d’esodo;
  • misure antincendio minime per l’esodo;
  • progettazione dell’esodo;
  • esodo in presenza di occupanti con disabilità;
  • misure antincendio aggiuntive;

Il Decreto del Ministero dell’Interno 3 agosto 2015 “Approvazione di norme tecniche di prevenzione incendi, ai sensi dell’articolo 15 del Decreto Legislativo 8 marzo 2006, n. 139” è consultabile all’indirizzo:

http://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2015/08/20/15A06189/sg

 

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DIFFERENZE DI GENERE: RISCHI PSICOSOCIALI, STRESS E SUICIDI

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

21 dicembre 2015

di Tiziano Menduto

 

Informazioni sulle differenze di genere nel mondo del lavoro con particolare riferimento ai rischi psicosociali e allo stress lavoro correlato. I fattori di rischio, le mansioni femminili e le differenze sull’incidenza di suicidio tra donne e uomini.

 

Diversi articoli di PuntoSicuro in questi ultimi anni hanno sottolineato come le differenze di genere si associno spesso nel mondo del lavoro a una distribuzione diversa, per tipologia e incidenza, delle patologie di origine professionale.

E questa differente distribuzione è attribuibile sia ad una ineguale esposizione ai rischi per la salute che ad alcune specificità dei due sessi, ad esempio a peculiarità di tossico-cinetica e tossico-dinamica, differenti suscettibilità di organi bersaglio e specificità legate al sistema riproduttivo e ormonale che possono predisporre a effetti biologici diversi, anche a parità di esposizione.

 

Ad affermarlo è il documento INAIL “Salute e sicurezza sul lavoro, una questione anche di genere. Rischi lavorativi. Un approccio multidisciplinare” che segue la pubblicazione di altri tre volumi INAIL sul tema delle differenze correlate all’appartenenza al genere maschile o femminile.

E se in passati articoli di presentazione del documento, PuntoSicuro ha evidenziato diverse differenze di genere correlate, ad esempio, ai rischi chimici e biologici e ai rischi ergonomici e organizzativi, si possono notare sensibili differenze anche riguardo ai rischi psicosociali?

Ricordiamo che i rischi psicosociali sono (come indica il documento INAIL e come da definizione di Cox e Griffiths del 1995, ripresa nel 2000 dall’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro) “gli aspetti di progettazione, organizzazione e gestione del lavoro e i loro contesti ambientali e sociali che, potenzialmente, possono dar luogo a danni di natura psicologica, sociale o fisica”. E in particolare “lo stress lavoro correlato è un insieme di reazioni fisiche ed emotive dannose che si manifesta quando le richieste in ambito lavorativo non sono commisurate alle capacità, risorse o esigenze del lavoratore” (NIOSH, 1999).

Per capire se ci siano specificità e differenze di genere riguardo ai rischi psicosociali, bisogna innanzitutto elencare i principali fattori di rischio in ambito lavorativo suddivisi per contenuto e contesto di lavoro, per i quali esiste un’ampia evidenza scientifica che rappresentino un potenziale di stress e di danno per la salute: l’elevato carico di lavoro, una scarsa autonomia, un basso supporto sociale da colleghi e superiori, instabilità e insicurezza del lavoro, alcune caratteristiche dell’orario di lavoro e una bassa remunerazione.

Se fino a oggi gli studi “non hanno evidenziato differenze tra uomini e donne nelle cause dello stress lavoro correlato” (Miller e altri, 2000), è importante sottolineare che molti di questi fattori di rischio indicati sono presenti nelle mansioni svolte generalmente da donne: mancanza di controllo sul proprio lavoro, posizione nella gerarchia organizzativa, gap salariale, compiti ripetitivi, instabilità e insicurezza sul lavoro, esigenze contrastanti tra lavoro e vita privata, discriminazione, molestie sessuali.

Ad esempio la difficoltà nel conciliare lavoro e vita familiare è “considerato un fattore in grado di aumentare nelle donne il rischio di disturbi psicologici da stress quali stanchezza cronica, nervosismo, ansia, disturbi della sfera sessuale e depressione” (Wedderburn, 2000).

Inoltre “i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità così come quelli derivanti da statistiche condotte in Italia, dimostrano come la depressione e i disturbi d’ansia siano più diffusi tra le donne rispetto agli uomini e che questa maggiore prevalenza femminile può essere dovuta a fattori ormonali (basti pensare alla depressioni post-partum), biologici e sociali, o potrebbe essere l’epifenomeno di una maggior propensione delle donne a richiedere un trattamento terapeutico” (Dell’Osso, 2012).

E all’inverso “il minor ricorso a trattamenti terapeutici, ovviato spesso da condotte di abuso di alcol e droghe, potrebbe portare alla sottostima di queste patologie nel sesso maschile” (Haslam, 2003).

E se le differenze di genere sono particolarmente evidenti con riferimento ai casi di segregazione occupazionale, cioè all’ineguale distribuzione per genere degli individui tra le diverse occupazioni, si evidenzia come in alcuni settori a elevata occupazione femminile (sanità e istruzione in primo luogo) si richiede alle lavoratrici di svolgere mansioni molto impegnative sia sul piano fisico, che su quello mentale, con un forte uso delle risorse relazionali ed emotive che possono comportare stati di stress e di stanchezza notevoli.

Senza dimenticare che, come ricordato a proposito dei rischi da fattori inerenti l’organizzazione di lavoro, in una lavoratrice un lavoro faticoso e stressante può alterare il ciclo mestruale provocando, amenorrea, dismenorrea, cicli anovulatori e riduzione della fertilità.

Inoltre secondo alcuni studi le donne “tendono a sviluppare 2-3 volte più degli uomini il disturbo post traumatico da stress dopo un trauma e ad avere sintomi più persistenti” (American Medical Association Councilon Scientific Affairs).

E sembra che il rischio di disturbi dell’ansia e dell’umore sia in genere associato per le donne a eventi stressanti della vita legati alla riproduzione, educazione e cura dei figli e alla gestione della famiglia, mentre per gli uomini tale rischio “viene a essere associato maggiormente a problematiche lavorative e finanziarie” (Afifi, 2007).

Concludiamo l’articolo proprio parlando delle reazioni alle problematiche economiche e alle differenze riscontrate sull’incidenza di suicidio tra donne e uomini.

Infatti si è riscontrato, in uno studio condotto alla fine degli anni ‘80, che l’incidenza di suicidio è “superiore nell’uomo rispetto alla donna con un rapporto 3,5:1 nella popolazione generale” (Conroy, 1989). Altri studi hanno evidenziato come tale divario aumenti notevolmente se si considerano solo i suicidi per i quali fosse possibile riconoscere una motivazione legata al mondo del lavoro.

Veniamo ad alcuni dati che riguardano l’Italia, come riportati nel documento dell’INAIL:

  • i suicidi di imprenditori e lavoratori, motivati da difficoltà economiche, sono saliti del 52% dai 123 del 2005 ai 187 del 2010 (dati ISTAT);
  • secondo i dati EURES nel corso del 2009 in Italia i suicidi commessi sono stati 2.986 (il 5,6% in più rispetto all’anno precedente), con incremento sia della componente femminile (643 casi, +1,6% rispetto al 2008) che, ancor più, della componente maschile (2.197 casi, + 5,6%);
  • i suicidi per ragioni economiche (per quanto sia possibile attribuire una motivazione univoca al gesto e al netto dei suicidi “non spiegati”) risultano essere stati 198 nel 2009 (+32% rispetto al 2008, +67,8% rispetto al 2007), rappresentando il 10,3% dei casi totali contro il 2,9% rilevato nel 2000, evidenziando così la forte influenza determinata dalla crisi economica che il Paese sta attraversando.

 

In ogni caso il suicidio per ragioni economiche sembra rappresentare nel nostro paese un fenomeno quasi esclusivamente maschile e si può ipotizzare, infine, che questo dipenda dal particolare contesto socio culturale del nostro paese: la centralità del lavoro e la responsabilità del mantenimento della famiglia sono, infatti, ancora oggi prerogativa e responsabilità prettamente maschili.

IL documento dell’INAIL “Salute e sicurezza sul lavoro, una questione anche di genere. Rischi lavorativi. Un approccio multidisciplinare” è scaricabile all’indirizzo:

http://www.inail.it/internet_web/wcm/idc/groups/internet/documents/document/ucm_107230.pdf

 

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PONTEGGI METALLICI: LE NORME CI SONO, MA BISOGNA APPLICARLE

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

22 dicembre 2015

di Tiziano Menduto

 

Per evitare incidenti nei cantieri le norme relative ai ponteggi metallici fissi le l’abbiamo, ma bisogna applicarle. Ne parliamo con Michele Candreva del Ministero del Lavoro.

 

La cronaca di molti incidenti professionali che avvengono quotidianamente nei cantieri (ad esempio il caso del crollo di un’impalcatura con la morte di due operai che è avvenuta a fine ottobre a Piedimonte Matese, in provincia di Caserta) ci ricordano come sia importante la nostra opera di informazione sul tema delle cadute dall’alto in edilizia o, più semplicemente, della tenuta delle opere provvisionali.

 

Per affrontare il tema della sicurezza delle opere provvisionali, del rischio di caduta dall’alto, per cercare di capire perché sono ancora così tanti gli incidenti di lavoro gravi e mortali, abbiamo intervistato l’ingegner Michele Candreva della Direzione Generale della tutela delle condizioni di lavoro e delle relazioni industriali del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.

Lo abbiamo intervistato a margine della manifestazione Ambiente Lavoro, che si è tenuta a Bologna nel mese di ottobre, dove l’ingegner Candreva è intervenuto come relatore al convegno INAIL “I ponteggi metallici fissi: comportamento strutturale ed utilizzi specifici”.

E’ un’intervista diversa dalle altre interviste che realizziamo ai vari attori istituzionali della sicurezza. Il rappresentante del Ministero portava con sé una capiente e pesante borsa nella quale conservava alcuni importanti elementi dei ponteggi, quegli elementi che spesso sono alla radice di molti problemi delle opere provvisionali. E ha voluto mostrarceli, farli vedere alla nostra telecamera, parlarne praticamente per mostrare come a volte servano anche conoscenze pratiche per una reale prevenzione. Per dimostrare che “le norme in questo settore, le disposizioni giuridiche, ce l’abbiamo già”. E che “lo sforzo che dobbiamo fare è applicare quelle norme”.

Veniamo brevemente alle domande rivolte dal nostro giornale.

Non si può non partire da un breve excursus storico che è anche il tema della sua relazione.

Partendo dagli anni cinquanta cosa è cambiato a livello normativo, tecnico e legislativo, sul tema delle disposizioni legislative sulla fabbricazione, commercializzazione dei ponteggi metallici fissi e sulle norme per la prevenzione?

Passare poi nell’intervista dalle norme teoriche agli aspetti pratici e tecnici, è un attimo…

Lei dice che non mancano le norme per la prevenzione e che ci sono tuttavia alcuni aspetti pratici che, spiegati in concreto, potrebbero migliorare la prevenzione. Può fare qualche esempio?

In questa parte dell’intervista, che si sviluppa quasi come una breve sessione di addestramento, l’ingegner Candreva si sofferma in particolare su:

  • elementi contro lo sganciamento accidentale delle tavole metalliche;
  • spine a verme per tenere collegati il montante inferiore con il montante superiore;
  • pipette di un corrente o di un diagonale.

E viene più volte citato l’articolo 137 del D.Lgs.81/08 sulla manutenzione e revisione. Articolo in cui si indica che “il preposto, ad intervalli periodici o dopo violente perturbazioni atmosferiche o prolungata interruzione di lavoro deve assicurarsi della verticalità dei montanti, del giusto serraggio dei giunti, della efficienza degli ancoraggi e dei controventi, curando l’eventuale sostituzione o il rinforzo di elementi inefficienti”. E che i vari elementi metallici “devono essere difesi dagli agenti nocivi esterni con idonei sistemi di protezione”.

Le domande cercano poi di capire le cause e le eventuali “soluzioni” per migliorare la prevenzione.

Perché queste normative sono poco applicate? Mancanza di consapevolezza nelle aziende o nei lavoratori? Mancanza di formazione o addestramento?

A questo proposito l’ingegner Candreva ricorda quanto possa essere importante l’addestramento per “far capire agli operatori l’importanza del montaggio di quel determinato attrezzo, di quel determinato dispositivo di protezione, di quel determinato dispositivo di sicurezza”.

E infine cosa può fare il legislatore per aumentare la prevenzione?

Viene citata la Circolare del Ministero del lavoro 9 febbraio 1995 sull’utilizzo di elementi di impalcato metallico prefabbricato di tipo autorizzato in luogo di elementi di impalcato in legname. E la Circolare 27 agosto 2010, n. 29 in relazione all’impiego di ponteggi come protezione collettiva per i lavoratori che svolgono la loro attività sulle coperture.

Come sempre diamo ai nostri lettori la possibilità di ascoltare integralmente l’intervista al link:

https://www.youtube.com/watch?v=__sROjuY1GQ

e/o di leggerne una parziale trascrizione.

ARTICOLO E INTERVISTA A CURA DI TIZIANO MENDUTO

Partendo dagli anni cinquanta cosa è cambiato a livello normativo, tecnico e legislativo, sul tema delle disposizioni legislative sulla fabbricazione, commercializzazione dei ponteggi metallici fissi e sulle norme per la prevenzione?

Michele Candreva

Purtroppo gli infortuni degli ultimi sessanta anni, relativi alle cadute dall’alto e alle opere provvisionali e dei ponteggi, sono in buona sostanza sempre gli stessi.

A mio parere la norma c’è. Il legislatore italiano è intervenuto in questo settore già dal 1955/1956 con idee molto chiare. La differenza con i tempi odierni è che all’epoca era il legislatore ad avere già fatto la valutazione dei rischi e aver dato le indicazioni precise ed esatte di quello che si doveva fare. Ora grazie all’Europa (e l’Europa da questo punto ci ha dato tantissimo) a seguito dell’analisi, dello studio, della valutazione dei rischi, si esamina il problema e si arriva a definire quali sono le migliori misure preventive e protettive per il caso specifico.

Nel mio intervento ho detto che, a mio parere, le norme in questo settore, le disposizioni giuridiche, ce l’abbiamo già. Lo sforzo che dobbiamo fare è applicare quelle norme. Dopo di che ho dato anche altre informazioni. Ad esempio ho detto che le Direttive europee di prodotto sulle opere provvisionale non esistono. Inutile che diciamo che c’è quel prodotto marcato CE, perché non può essere marcato CE, perché non esiste una Direttiva di prodotto sull’argomento.

Viceversa il legislatore italiano ha seguito costantemente questi temi fino ai giorni nostri, l’ultima circolare sui dispositivi di ancoraggio è infatti la Circolare n. 3 del 13 febbraio 2015. E’ vero che non esiste una Direttiva di prodotto su questo argomento, ma esiste una Direttiva di uso che è la Direttiva 2001/45/CE del giugno del 2001. E poi esistono una serie di norme a livello europee pubblicate dal Comitato europeo di normazione. Ne esistono tantissime: sui ponteggi, sui trabattelli, sui pontelli, sulle reti di sicurezza, sui parapetti provvisori, ecc..

Di normativa ne abbiamo tantissima, dobbiamo soltanto applicare quelle norme. Per applicare quelle norme avremo necessità di fare, a mio avviso, più che della formazione, dell’addestramento. Bisogna far vedere quelle cose che sono di natura pratica agli operatori del settore e far capire per quale motivo è utile, opportuno, necessario, inserire un certo dispositivo o meno.

Lei dice che non mancano le norme per la prevenzione e che ci sono tuttavia alcuni aspetti pratici che, spiegati in concreto, potrebbero migliorare la prevenzione. Può fare qualche esempio?

Michele Candreva

All’operatore bisogna dire che nel momento in cui questi elementi contro lo sganciamento accidentali sono utilizzati, ci sono diversi benefici.

Montiamo il ponteggio, magari montiamo naturalmente anche l’impalcato sull’ultimo piano del ponteggio a quota quindici metri, venti metri, trenta metri (a seconda di come sia l’edificio). E magari lo montiamo in una zona molto ventosa. Voi capite bene che quando vediamo sul giornale che le tavole metalliche di un ponteggio sono stata sbilanciate a trenta, quaranta metri di distanza evidentemente questi elementi contro lo sganciamento accidentale della tavola metallica non erano stati montati. E nel momento in cui vengono effettuate le prove di controventatura in pianta sulle tavole metalliche che questi elementi contro lo sganciamento siano montati o meno incide almeno per il 30-40% sulla prova.

Mi viene poi in mente un articolo che è tra quelli più disattesi, l’articolo 137 del Testo Unico, quello sulla manutenzione.

Spesso e volentieri quando noi acquistiamo qualcosa, anche per casa nostra, non pensiamo alla manutenzione. Ma la manutenzione è molto importante. L’articolo dice che a intervalli periodici o dopo violente perturbazioni atmosferiche o prolungata interruzione di lavoro bisogna fare dei controlli periodici.

Ma questi controlli possono anche essere semplici. E, a mio modesto parere, si può andare a prendere l’allegato XIX del Testo Unico, fare la fotocopia, aggiungere due colonne alla fine con un si e un no, dare queste sette/otto pagine ad un responsabile del cantiere, a un preposto che, magari, ogni lunedì mattina vada a verificare il ponteggio.

Perché queste normative sono poco applicate? Mancanza di consapevolezza nelle aziende? Mancanza di formazione o addestramento?

Michele Candreva

L’impresa in realtà conosce abbastanza bene le problematiche e penso che cerchi di tenere le attrezzature in ordine. Molte volte è la fretta del cantiere che non consente di affrontare correttamente le problematiche.

Cosa si potrebbe fare? A mio avviso si dovrebbe operare il più possibile con l’addestramento: far capire agli operatori l’importanza del montaggio di quel determinato attrezzo, di quel determinato dispositivo di protezione, di quel determinato dispositivo di sicurezza. Quando si comprende che se, ad esempio non viene inserita la spina a verme o l’elemento contro lo sganciamento delle tavole metalliche viene a decurtarsi il coefficiente di sicurezza dell’intero ponteggio e ne va della sicurezza degli operatori, forse abbiamo più coscienza dei rischi.

 

 

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